E’ ghiuta a fernì 'a carne 'a sotto e 'e maccarune 'ncoppa
(E’ finita la carne sotto e la pasta sopra)
Questo è un altro dei proverbi napoletani che mi è molto caro, per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, forse più di altri modi di dire partenopei, ha la capacità di racchiudere in poche parole un'immediatezza e un'incisività di significato che la lingua italiana difficilmente riesce a rendere. Nel caso specifico, il proverbio odierno è un’esclamazione cui si ricorre quando qualcuno fa le cose alla rovescia o quando degli accadimenti avvengono in maniera inconsueta, come se, per l’appunto, anziché mettere il ragù sulla pasta, facessimo il contrario. Ma, indubbiamente, come sarà facile constatare anche per i non partenopei, il napoletano rende l’idea cento volte di più di quanto faccia l’italiano. E’ come se una Ferrari gareggiasse con una Fiat 500… pur volendo concedere alla seconda un buon margine di vantaggio, non c’è assolutamente storia!
Il secondo motivo, secondo solo per enunciazione, ma non certo per rilevanza, consiste nel fatto che questo proverbio era un tipico intercalare di Babbo Diego, cui egli si appellava allorquando voleva sottolineare, in maniera caustica, l’incapacità di qualcuno a fare qualcosa, o, meglio, la sua capacità a farla, ma in modo sbagliato. Tuttavia, la sua critica, rivolta, in ogni caso in maniera bonaria, non era mai fine a se stessa, ma rappresentava lo spunto per prendere rapidamente in mano la situazione e rimettere subito le cose a posto. Mio padre era, come si suol dire, un tipo frettello, ossia non gradiva lasciare le cose a metà, soprattutto se fatte male. Pertanto, anche non essendo il responsabile del misfatto, non vedeva l’ora di vestire i panni da Superman e risolvere la situazione in quattro e quattr’otto. L’errore altrui passava in secondo piano: il massimo della sottolineatura da parte sua era il ricorso al proverbio odierno. Ciò che veramente gli premeva era sistemare tutto il più velocemente possibile. A volte, era così rapido che noi altri ci accorgevamo di quanto era successo solo a cose già fatte!
E adesso a noi! Ci eravamo lasciati con Il ciclone che (mai titolo fu più appropriato!) aveva spazzato via in pochi secondi l’equilibrio faticosamente, ma illusoriamente, conseguito dopo svariati mesi di permanenza napoletana. Era bastato uno scorcio di campagna toscana per far riaffiorare in tutta la sua inclemenza la lacerazione conseguente al distacco da Siena.
Stenterete a crederlo, soprattutto per chi mi conosce, ma seguirono giorni di pura disperazione: il graduale processo di accettazione dell’accaduto mi aveva domata solo apparentemente. In realtà, dentro di me era un tumulto di sensazioni travolgenti che disordinatamente si accavallavano l’una all’altra senza trovare via d’uscita. Il moto di ribellione della mia anima, intrappolata negli ingranaggi del lavoro e in una città che non sentivo più mia, faceva a cazzotti con il senso di impotenza e di rassegnazione, che, se possibile, mi stizziva ancor più dell’insofferenza, essendo totalmente refrattaria all’idea di essere controllata da una circostanza esterna, piuttosto che controllarla. Insomma, ero diventata succube di una situazione che mi stava troppo stretta e che, per giunta, mi ero tessuta da sola, incrociandone caparbiamente la trama con l’ordito. Mi divincolavo come un animale ferito in gabbia, ma ogni mio sforzo era vanificato dall’impossibilità di tirarmi fuori dalla mia prigionia.
Alla fine, quando il mio umore ebbe toccato il fondo, mi diedi una bella scrollata e mi feci coraggio con il mio solito motto: Male che vada, hai sempre te stessa! Sapevo che era un palliativo, ma volevo e dovevo essere fiduciosa nelle sorprese che il futuro aveva in serbo per me. Decisi di dare una sferzata a questo stato di autocommiserazione che mal tolleravo assegnandomi un nuovo, arduo compito: quello di cercare casa per conto mio! Fino ad allora mi ero appoggiata da mia madre che, essendo sola, era ben felice di avermi con sé, peraltro in un appartamento sufficientemente spazioso. Tuttavia, avendo percepito lo stato di disagio in cui versavo, fu la prima ad incoraggiarmi nella ricerca di una nuova sistemazione. Pensava (e, a dire il vero, lo pensavo anche io!) che se avessi ricreato una sorta di rifugio simile, in qualche modo, alla casetta di Siena, forse avrei trovato un po’ di lenimento ai patimenti della mia anima.
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