venerdì 29 aprile 2011

Gioia! Gioia!

Oggi, riannodandomi al post di ultima pubblicazione, dedicato, in apertura, al tema della Felicità, vorrei tentare qualcosa di non ancora sperimentato all’interno del mio blog: una riflessione in… musica!
Ad essere sincera, l’idea mi è venuta visitando il sito Gioire in Musica, della mia amica multimediale Annamaria, dedicato alla musica classica, sito che, pur non essendo una cultrice della materia, mi ha letteralmente rapita per la competenza e l’ispirazione che si percepiscono in ogni sua parte. Ma, sopra ogni cosa, ha confermato ciò di cui avevo già ferma convinzione, ossia che per riconoscere il bello non occorre essere titolati.
Naturalmente, volendo celebrare la Felicità, non potevo che scegliere l’Inno alla Gioia, di Friedrich von Schiller, incluso nella Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven.
Ho allegato in calce la traduzione in italiano del testo, ma penso che, più di ogni altra cosa, a parlare debba essere la Musica!


Beethoven: Sinfonia n. 9, Finale presto

O amici, non questi suoni!
ma intoniamone altri
più piacevoli, e più gioiosi.
Gioia! Gioia!
Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell'Elisio,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
Il tuo fascino riunisce
ciò che la moda separò;
ogni uomo s'affratella
dove la tua ala soave freme.
L'uomo a cui la sorte benevola,
concesse il dono di un amico,
chi ha ottenuto una donna leggiadra,
unisca il suo giubilo al nostro!
Sì, - chi anche una sola anima
possa dir sua nel mondo!
Chi invece non c'è riuscito,
lasci piangente e furtivo questa compagnia!
Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;
vanno i buoni e i malvagi
sul sentiero suo di rose!
Baci ci ha dato e uva, un amico,
provato fino alla morte!
La voluttà fu concessa al verme,
e il cherubino sta davanti a Dio!
Lieti, come i suoi astri volano
attraverso la volta splendida del cielo,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!


giovedì 28 aprile 2011

Gli angeli esistono!

'A cuntentezza vene d' 'o core
(La felicità viene dal cuore)

Vi è mai capitato di essere così felici da non poterlo nascondere al resto del mondo? Sono sicura di sì! Anche a me è successo e, quando questa meravigliosa circostanza si è verificata, ricordo, come se stessi a guardarmi allo specchio, di avere avuto un sorriso aperto e franco stampato sulla faccia, contagioso a tal punto da non poter sfuggire neanche al più apatico degli osservatori.
Quel moto incontenibile di contentezza viene dal profondo del nostro essere, dal cuore, come dice saggiamente il motto napoletano in apertura, ed è così dilagante che anche l’ignaro passante che, per puro caso, incappi in quella invisibile ma percepibile corrente di gioia, non può rimane indifferente e, travolto dal nostro stato d’animo, immancabilmente lo condivide con un sorriso luminoso.
Avete mai pensato a quali miracoli possano compiere i sentimenti positivi? Quell’attimo fuggente in cui due persone, anche se sconosciute, sono entrate in contatto è bastato per trasferire l’energia positiva dell’una all’altra.
Molti sostengono che la felicità non può essere uno stato permanente dell’individuo, ma si riduce a brevi parentesi nel corso di una vita intera. E’ vero, anche io lo penso. Tuttavia, ciò che gli altri sottovalutano è la forza del cuore, capace di sprigionare effetti la cui durata è ben superiore all’attimo di intensa felicità che lo ha fatto vibrare. E’ come quando si getta un sasso in uno stagno. In tale sequenza –provate ad immaginarla nella vostra mente, come se steste guardando un film-, molti sensi sono coinvolti: il tatto della mano che ha afferrato il sasso liscio e freddo, la vista della superficie dell’acqua violata dal pesante corpo solido, il rumore sordo ed ovattato che esso genera, penetrando nella massa liquida. Eppure, questo gesto così rapido è capace di dare vita ad una meravigliosa danza di cerchi concentrici che, rincorrendosi a pelo d’acqua, trasferiscono il proprio moto e la propria energia alle particelle contigue.  
Lo stesso accade anche con le emozioni che noi manifestiamo: esse sono spesso istantanee, ma si espandono ed amplificano i loro effetti sulle persone con cui veniamo in contatto, facendo sì che quelle persone risuonino esattamente delle stesse vibrazioni.
Insomma, chiamatemi inguaribile romantica, chiamatemi povera illusa, ma nessuno mi toglie dalla testa che un attimo di felicità, sostenuto dalla forza del cuore, è capace di smuovere le montagne!




E adesso, altra puntata rivoluzionaria!
Il passaggio da due a tre figli non fu traumatico come molte mamme, ferme a uno o a due pargoli, immaginano. Anzi, nel mio caso, fu molto meglio che il passaggio da uno a due! Difatti, Aurora e Carlo Alberto erano già sufficientemente grandi per interagire e, dunque, si facevano compagnia l’una con l’altro, non badando troppo alla mia forzata latitanza nel momento in cui dovevo accudire il più piccolo.
Gli spazi ristretti della casa dove vivevamo mi avevano costretto ad isolare Diego, affinché, soprattutto di notte, non disturbasse il sonno dei fratellini.
Ma il vero caos si verificava di giorno, allorquando Aurora e Carlo Alberto volevano giocare e lo facevano, naturalmente, in maniera tutt’altro che silenziosa, mentre l’altro desiderava dormire.
Ero consapevole che una simile sistemazione era solo momentanea e che necessitavo di una casa più grande, ma quella circostanza mi fece capire il ruolo importantissimo che lo spazio gioca nello sviluppo equilibrato di ogni bambino. Il bambino è per definizione scevro di qualunque freno, di qualunque sovrastruttura, di qualunque pregiudizio. Costringere uno spirito libero come il suo in spazi angusti significa reprimere la sua istanza impellente di manifestare se stesso come individuo, con le esigenze di movimento e di spostamento che sono proprie della sua età ed attraverso le quali comunica con il mondo che lo circonda.
Urgeva, dunque, trasferirsi in una dimora più ampia e il caso volle (ma, come sapete, io non credo nella casualità!) che proprio accanto alla casetta dei nonni materni ci fosse una casa in vendita che sembrava fatta apposta per noi.
Tutto pareva allinearsi, senonché, poco dopo Ferragosto, arrivò un fulmine a ciel sereno: la ragazza che mi aiutava con i bimbi, cadendo, si era infortunata, in maniera non seria, ma invalidante per ciò che le veniva richiesto e per un periodo di tempo abbastanza lungo.
A questo punto, l’esigenza di una nuova casa era passata in secondo ordine (quando si dice che tutto è relativo…) ed era scattato l’S.O.S. Tata.
Non dico che fossi disperata, ma indubbiamente ero un po’ avvilita. Confidavo, però, nel mio innato ottimismo che prontamente mi richiamò alla mente un altro famoso proverbio: quando si chiude una porta, si apre un portone.
Ed ecco fatto! A distanza di una decina di giorni, a seguito di circostanze (apparentemente!) fortuite, bussò alla mia porta la Tata Perfetta, un vero e proprio angelo che, tuttora, aleggia dolcemente nella nostra casa!

mercoledì 27 aprile 2011

Il bruco e la farfalla

Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non quel che trova

E meno male! Se tutti ci limitassimo a fare sempre le medesime cose, sempre nel medesimo ambiente ed interagendo sempre con le medesime persone, il mondo non conoscerebbe alcun tipo di evoluzione, e tutti resteremmo aggrappati alla nostra personale zona di comfort, difendendola con le unghie e con i denti!
Al proverbio odierno, preferisco il suo opposto, Chi non risica non rosica, del resto, già diffusamente commentato in un post passato.
Il bello della vita, al contrario di quanto sostiene il motto odierno, consiste proprio nel prendere il volo, lasciando il nido soffice ed accogliente che ciascuno ha predisposto per soddisfare le proprie esigenze primarie, e spiegare le ali verso l’ignoto, verso la conquista di orizzonti nuovi e di vette più alte, che ci sarebbero rimasti ignoti se non avessimo osato!
E poi, per dirla proprio tutta, la mia intenzione più profonda era quella di prendere spunto dal proverbio di apertura per rendere omaggio, dopo Totò, ad un altro grande della comicità napoletana e, quindi, chiudere in questo modo il cerchio. Sto parlando, carissimi amici, dell’indimenticabile Massimo Troisi, creatore di una vena comica sottile e delicata, autore di film dalle atmosfere sfumate ed evanescenti, eppure così incisive e così impregnate della sua personalità da far quasi dimenticare che egli non sia più tra noi.
La scena che vi propongo è tratta dal suo primo film, Ricomincio da tre, del 1981, nel quale egli esordisce anche come regista e come sceneggiatore. Gli è accanto, quale impareggiabile spalla, il grande Lello Arena, con il quale in passato aveva dato vita al trio cabarettistico La Smorfia, completato dalla figura di Enzo Decaro.
Alla prima selezione, in cui si accenna, per l’appunto, al proverbio odierno, leggermente modificato ma con eguale senso, vorrei affiancarne una seconda, allorquando Gaetano (Massimo Troisi), trasferitosi a Firenze presso sua zia, si reca con l’amico Frankie (Vincent Gentile), un missionario mormone di nazionalità americana, a fare visita alla signora Ida (Laura Nucci) e a suo figlio Robertino (Renato Scarpa), che, nonostante quanto faccia presuppore il nome, ha oltre quarant’anni ed è succube di una mamma oppressiva ed accentratrice.
Godiamoci questi impareggiabili filmati!


 
Chi parte sa da che cosa fugge...


 Robertino


Dopo questa meravigliosa parentesi, torniamo, come di consueto, alle mie vicende! Eravamo fermi alla nascita del terzogenito Diego Maria, avvenuta il 16 luglio del 2007. Circa dieci giorni prima del parto mi ero trasferita a Sant’Angelo dei Lombardi con mio marito ed i bimbi, avvalendomi dell’aiuto della signora Maria, la babysitter napoletana, che mi diede la sua disponibilità per tutto il mese, dopodiché avrebbe fatto rientro a Napoli, dalla sua famiglia.
Visto che era mia ferma intenzione trasferirmi in Irpinia, dovevo, ovviamente, darmi da fare per trovare una sostituta di Maria.
Non essendo del tutto nuova all’ambiente paesano, sparsi la voce tra le mie conoscenze locali e nel giro di una settimana riuscii ad assicurarmi la collaborazione di una ragazza proveniente da un paese vicino.
I cambiamenti furono drastici: improvvisamente mi ritrovavo con un altro bimbo da accudire, in una casa, quella dei miei nonni materni, decisamente troppo piccola per le nostre esigenze, senza il supporto di mio marito che, nonostante mi avesse pienamente sostenuto in questa scelta (e non so quanti, al suo posto, lo avrebbero fatto!), era obbligato per la sua professione a lavorare a Napoli e, dunque, poteva essere con noi solo il fine settimana.
L’unico vantaggio era la presenza di mia madre, anch’essa, tuttavia, limitata ai soli mesi estivi, visto che Nonna Enza era divenuta una cittadina da oltre quarant’anni e ritornava al paesello nativo solo per il breve periodo vacanziero.
Insomma, con assoluta nonchalance, mi ero tuffata in un altra delle mie epiche metamorfosi, sicura che, anche stavolta, dal bruco sarebbe venuta fuori una farfalla!








martedì 26 aprile 2011

La verde Irpinia

Storta va deritta vene, sempe storta nun po' gghì
Storta va dritta viene, prima o poi girerà bene

E’ una legge di natura: dopo il temporale, arriva sempre il sereno! E questa legge funziona anche per le vicende umane. Anzi, come più volte ribadito, personalmente ritengo che ciascuno sia artefice della sua fortuna e che, pertanto, il bello e il brutto della vita sia innanzitutto una responsabilità strettamente personale. Troppo spesso attribuiamo alla casualità l’origine dei nostri mali o la utilizziamo come capro espiatorio per giustificare i nostri insuccessi. La realtà è che sovente non abbiamo il coraggio di prendere le redini della nostra esistenza e plasmarla secondo quelli che sono i nostri desideri o le nostre aspirazioni. Ci crogioliamo in un disfattismo dilagante, che ci porta a parlare male di tutto e di tutti, eppure non facciamo nulla per cambiare lo stato delle cose. E badate bene, non parlo di cambiare i grandi sistemi del Pianeta, ma di agire laddove possiamo, fosse anche semplicemente il nostro stile di vita o il nostro modo di pensare.
Se mi guardo intorno, noto che la massima aspirazione della gente comune consiste in un posto da lavoratore dipendente, dove ti viene detto cosa fare, come farlo e quando farlo, in un televisore al plasma di almeno 46 pollici, dove ti viene ‘suggerito’ cosa guardare e cosa pensare, e di due settimane di vacanza al mare, preferibilmente a giugno o a settembre perché costa meno, ma che spesso si riducono ad una a causa dell’instabilità climatica, per cui è vero che hai pagato la metà, ma il tuo fegato è grosso il doppio!
Insomma, da buona rivoluzionaria, aspirerei ad un mondo leggermente diverso, dove la gente possa prendere realmente coscienza delle proprie capacità, dove, a prescindere dagli impedimenti esterni di vario genere, essa abbia il coraggio di svestire la corazza dei luoghi comuni, del pessimismo improduttivo, della comodità del lavoro dipendente (che, ammettiamolo, nonostante i suoi lati oscuri, ha il vantaggio di sottrarci al rischio imprenditoriale e, dunque, alla necessità di mettere in gioco ogni giorno le nostre risorse finanziarie, le nostre potenzialità e la nostra creatività!). E’ ovvio che molte di queste mie riflessioni rappresentano, parzialmente, mere provocazioni, in quanto mi rendo conto che la maggioranza delle persone percepisce cambiamenti di questo tipo come estremi e, dunque, non facilmente attuabili.
Ciò che, tuttavia, è per me una certezza incrollabile è il seguente principio: se va storta, l’unico modo perché possa venire dritta è che ci impegniamo personalmente affinché ciò avvenga. E l’unico modo che conosco e che reputo ammissibile esclude tassativamente lamentele, recriminazioni, accuse, vittimismo o, peggio ancora, assistenzialismo ed apatia, e consiste, piuttosto, nel rimboccarsi le maniche e nel rimettersi in corsa nell’infinito gioco della vita, ciascuno secondo le proprie inclinazioni e potenzialità!  
A questo punto, sicura che tra voi, carissimi lettori, troverò come sempre opinioni contrastanti (ma solo apparentemente, in quanto, secondo l’antica filosofia cinese, gli opposti -lo Yin e lo Yang- sono in realtà complementari, poiché ciascuno contiene il seme dell’altro), riprendo gli annali rivoluzionari!
Se la nascita di Aurora in Alta Irpinia era stata casuale (anche se, ormai, sapete che non credo troppo nella casualità!), per la nascita del terzogenito Diego Maria scelsi volutamente la struttura ospedaliera che così favorevolmente aveva accolto il mio primo parto. Al secondogenito Carlo Alberto erano, invece, toccati in sorte natali partenopei, in quanto le condizioni climatiche di quel freddissimo novembre del 2005 resero impossibile qualsiasi spostamento.  
Diego nacque a luglio del 2007 e, che ci crediate o no, da allora decisi di non fare più ritorno a Napoli, la mia città natale, se non per brevissimi periodi coincidenti con le festività natalizie o pasquali. Come tutte le decisioni importanti della mia vita, anche questa fu presa abbastanza rapidamente, affidandomi più al mio sesto senso che al raziocinio. L’unica persona con cui avevo concordato questo radicale cambiamento era, ovviamente, mio marito. Il luogo in cui andavo a stabilire la mia dimora non mi era sconosciuto, in quanto si trattava del paese che aveva dato i natali a mia madre, nonché a due dei miei figli, e dove, da quando ero nata e fino all’età di venti anni, avevo sistematicamente trascorso l’intero mese di agosto. Sto parlando di Sant’Angelo dei Lombardi, forse nota ai più per il catastrofico sisma del 1980, che la rase praticamente al suolo. Eppure, a prescindere da quel terribile evento, il ricordo che serbo di questo piccolo centro, posto ad oltre 850 metri nel cuore della verde Irpinia, corrisponde al luogo che mi accoglieva benevolmente estate dopo estate e dove assaporavo la libertà di movimento che non mi era concessa nella grande città. Rammento con tenerezza come all’età di appena cinque anni mi recavo ai giardinetti comunali per lo più in compagnia di mia sorella Daniela, ma, talvolta, addirittura, da sola. Non potete immaginare, a meno che non l’abbiate provata anche voi, quanto corroborante e pregnante sia per una bimba così piccola la sensazione di essere autonoma e capace di gestirsi da sola!
Dunque, anche la scelta di questo luogo non è stata casuale, poiché sono legata ad esso da un affetto infinito, che affonda le sue radici nel periodo più spensierato della vita di ciascuno di noi, l’infanzia.   
Inizialmente, mi appoggiai insieme ai bimbi in quella che era stata la casa dei nonni materni, in pieno centro storico, ma, dopo appena un anno dalla nascita di Diego, la nostra nuova, meravigliosa casa era praticamente pronta per accoglierci.
Tuttavia, di questo vi parlerò nel prossimo post!

venerdì 22 aprile 2011

Oggi sciopero!

Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi! 

Oggi niente post! sciopero! 
La verità è che, come buona parte delle donne, sono presa dai preparativi prepasquali, per cui approfitto per inviarvi un incommensurabile, incontenibile, calorosissimo augurio di 

Buona Pasqua!



Happy Easter!
Joyeuses Pâques!
Feliz Páscoa!
Feliz Semana Santa!
Frohe Ostern!

e per il mio affezionato lettore da Singapore (ammesso che la festeggi...):

Selamat hari Paskah!  

giovedì 21 aprile 2011

Benvenuto Diego Maria!

Casa senza femmena, varca senza timone
(Casa senza donna, barca senza timone)

Oggi tiro l’acqua al mio mulino, nel senso che farò un elogio alla casalinga di ieri, di oggi e di domani e del suo ruolo fondamentale all’interno della famiglia. Badate bene, non sto parlando della centralità della donna, bensì di quella della casalinga.
Ricercando su vari dizionari il significato della parola in questione, vengono fuori le seguenti definizioni:
Donna che si occupa della casa e della famiglia, senza esercitare una professione retribuita
Donna che si dedica esclusivamente alla casa e non svolge altra attività
Eppure, alla voce ‘casa’ leggo:
Luogo che l'uomo costruisce, oppure sceglie o adatta fra quelli che a lui si offrono nell'ambiente naturale, per farne ricovero, stabile o temporaneo, per sé e i suoi, centro della sua vita quotidiana
e, con significato estensivo del termine:
ambiente familiare, famiglia
e, ancora:
stirpe, dinastia, casato
Mettendo assieme i tasselli, i conti non tornano. Non pensate che il significato che illustri dizionari hanno affibbiato al termine ‘casalinga’ sia riduttivo e penalizzante? La donna che si dedica alla casa e alla famiglia viene raffigurata alla stregua di una povera sprovveduta, che si sacrifica giorno dopo giorno per i suoi cari, trascinandosi in ciabatte tra le mura domestiche, senza alcun riconoscimento di tipo economico: insomma una Cenerentola dei tempi moderni!
Ebbene, a quest’immagine che traspare tra le righe, io non ci sto! Se è vero che la casa, in termini materiali, va intesa come luogo adibito a ricovero, è anche vero che, con significato più ampio ma onnicomprensivo, essa rappresenta il fulcro della vita quotidiana della famiglia. Dunque, la casa risponde sicuramente ad un bisogno primario dell’uomo, ossia la ‘tana’ dove rifugiarsi e ristorarsi, ma è, innegabilmente, anche il centro dell’energia e, direi quasi, dell’empatia che agiscono da collante all’interno di una famiglia. Cosa sarebbe essa senza una casa? E cosa sarebbe una casa senza la donna casalinga, intesa nel senso più nobile del termine? Sarebbe simile, come dice bene l’antica saggezza popolare napoletana, ad una barca senza timone.
Dunque, cari i miei cultori di semantica, se volete evitare di risvegliarvi un bel giorno e ritrovarvi alle calcagna un’orda agguerrita di housewives, fareste bene a rivedere in termini più lusinghieri il significato di ‘casalinga’.
E adesso ritorniamo a noi! Dopo Carlo Alberto, io e Alessandro decidemmo che due figli erano troppo pochi (scusate la sgrammaticatura, ma questa dissonanza di parole rende benissimo l’idea!), per cui, anche con una certa velocità, ci portammo a quota tre: un anno ed otto mesi dopo Carlo, vedeva la luce il cadetto Diego Maria. Volete anche in questo caso la spiegazione della scelta del nome? OK, procedo. Diego, per i lettori che mi seguono da poco e che abbiano in arretrato le puntate precedenti, è il nome di mio padre, e, dunque, questo fu il motivo che in primis ci orientò verso quella scelta. In secondo luogo, anche il significato del nome ci convinse: le ipotesi più accreditate ritengono che Diego indichi una persona colta, istruita.
Al nome di mio padre ne volemmo, tuttavia, abbinare un secondo, e la scelta ricadde su Maria, come da lunga tradizione avveniva nella famiglia di Alessandro, dove al primo appellativo di tutti i maschi si accostava, per l’appunto, uno dei nomi più diffuso in Italia ed usato generalmente al femminile. Le origini del nome Maria risalirebbero all’antico Egitto e il suo significato sarebbe, secondo alcuni, ‘amata da Dio’, secondo altri ‘principessa’.
In ebraico, Maria, sulla scorta dell’accezione più autorevole, significherebbe ‘la signora’, dunque la donna per eccellenza. Di conseguenza, penso che anche a Diego Maria, al pari degli altri miei figli, sia toccata una bella sorte: da un lato l’uomo colto, istruito, raziocinante, dall’altro, in fortissima relazione, la parte ‘femminile’, ossia l'anima, la capacità ricettiva, l’intuito e la creatività.
E allora, benvenuto Diego Maria!
Ah! Tanto per rassicurarvi… con i figli mi sono fermata a tre, anche se mi ripeto spesso che non ci sono limiti alla provvidenza!

mercoledì 20 aprile 2011

Il Principe della risata

Il post di lunedì, in cui parlavo dell’arte di arrangiarsi del napoletano, mi ha dato lo spunto per inserire uno spezzone tratto dal famosissimo film del 1954 Miseria e nobiltà, interpretato dall’altrettanto famoso Antonio de Curtis, in arte Totò. Da buona partenopea, non ho perso l’occasione di seguire la scia ed andare a rivedere scene tratte da altri notissimi film del Principe della risata. Mi sono resa conto, senza grande sorpresa, che, nonostante conosca benissimo ognuno di quei frammenti, per me rappresenta un piacere impagabile andare a gustarli di nuovo. Perché? Ma perché la vera sorpresa è Totò, unico, impareggiabile, inimitabile, irripetibile; perché ogni volta è possibile cogliere una battuta, una sottigliezza, un’espressione che erano sfuggite alla precedente visione e che danno allo spettatore la percezione netta di assistere ad un capolavoro che di volta in volta supera se stesso.  
Che dire di Totò? Di lui è già stato scritto e detto tutto. E’ stato il creatore di un umorismo sottile, fatto di doppi sensi, di apparente demenzialità, ma indubbiamente senza tempo. Prova ne sia il fatto che, ancora oggi, ad oltre quarant’anni dalla sua scomparsa, esso è più vivo che mai. Molte delle sue battute e dei suoi modi di dire sono entrati a pieno merito nel linguaggio degli italiani. L’unica cosa che mi rammarica è che proprio la sua città, che a lui deve tanto, non gli abbia ancora dedicato una piazza, abbellita, magari, da una statua che lo raffiguri con la tipica bombetta pigiata sulla testa e i pantaloni al di sopra della caviglia. Eppure, chissà perché, nonostante alquanto improbabile e discutibile, quell’abbigliamento, indossato da lui,  appariva assolutamente appropriato, mentre erano gli altri a sembrare ridicoli!
Per completare il mio modesto omaggio al grandissimo Principe della risata, ho pensato di inserire uno spezzone tratto dal film Totò a colori del 1952, in cui Antonio Scannagatti (Totò), compositore squattrinato che abita nel paesino di Caianello, si ritrova a Capri, ospite di una certa Giulia Sofia (Franca Valeri), da cui spera di poter rimediare un appuntamento con l’editore Tiscordi (parodia di Ricordi) di Milano.
Il provinciale compositore dovrà, naturalmente, adeguarsi nello stile,  nell’abbigliamento e nella parlata ai gagà capresi. Memorabile la scena in cui l’improvvisato dandy, ribattezzato Pupetto Montmartre dagli Champs-Élysées, rende il suo tributo all’arte e al pittore che ha riprodotto un quadro di Picasso. Vediamo cosa ne viene fuori. Buona visione a tutti! 



martedì 19 aprile 2011

Uomo libero splendente di nobiltà

Meglio soli che male accompagnati

Quante volte lo abbiamo ripetuto a noi stessi e quante volte abbiamo indirizzato ad altri queste parole!
Senza ombra di dubbio, il messaggio contenuto nel proverbio di oggi riassume una verità lapalissiana. Se analizzato in maniera più profonda, esso è quasi un’offesa alla nostra intelligenza e al nostro buon senso: è logico che sia meglio bastare a se stessi piuttosto che accompagnarsi a persone che non ci sono di alcun supporto o che, addirittura, ci arrecano danno. Tuttavia, nonostante l’evidenza incontestabile di questo principio, sistematicamente lo disattendiamo. La scarsa fiducia nelle nostre potenzialità o la mancanza di stima verso noi stessi ci spingono sovente a trovare conferme e consensi dagli altri, dalle persone che ci sono affettivamente vicine, dai colleghi di lavoro, dai soggetti con cui, per vari motivi, ci relazioniamo. Purtroppo, questo universo di individui non sempre è all’altezza di farci da guida o da esempio e, di conseguenza, tanto per rimanere in tema di proverbi, accade che, alla fine, Chi va con lo zoppo impara a zoppicare!
Qual è, dunque, la morale della storia? Personalmente, ritengo che ciascuno di noi debba avere il coraggio di guardarsi dentro e fuori senza veli e senza filtri, per riconoscere innanzitutto i propri limiti. Il bello, però, è che la storia in questione non finisce qui, anzi qui trova il suo inizio. Essere consapevoli delle proprie lacune è il primo passo verso un percorso, indubbiamente non semplice, di miglioramento personale, alla fine del quale ciascuno di noi dovrebbe essere in grado di bastare a se stesso. Con ciò non voglio sottintendere che dovremmo votarci tutti alla vita da eremiti. Al contrario, ritengo che la persona capace di raggiungere un tale equilibrio sia quella veramente in grado, più di ogni altra, di intrecciare con il mondo che la circonda relazioni paritarie, piuttosto che morbose o di dipendenza. Tutti abbiamo bisogno di sentirci amati ed accettati, ma la prima persona da cui dobbiamo esigere questo trattamento siamo noi stessi. Nel momento in cui diventiamo padroni dell'autostima e della fiducia nelle nostre capacità, tutto il resto viene da solo…
E adesso siete pronti a darmi la mano per percorrere insieme a me un altro piccolo pezzetto della mia vita?
Ebbene, vi avevo lasciato al cambio di casa, avvenuto nel maggio del 2004, casa che, a distanza di poco più di un anno, nel novembre del 2005, avrebbe visto l’arrivo del mio secondogenito, Carlo Alberto.
La scelta del nome fu lunga e laboriosa e, sebbene non sia molto incline ai nomi composti, questo mi convinse subito, e per due motivi: innanzitutto perché è inusuale e, in secondo luogo, per il suo significato. Carlo, difatti, vuol dire ‘uomo libero’, mentre Alberto vuol dire ‘splendente di nobiltà’. Dunque, uomo libero splendente di nobiltà. E se, come credo, nel nome è racchiuso il nostro destino, allora il piccolo CA è, come si suol dire, a cavallo!
Del resto, a pensarci bene, anche il mio nome rispecchia la mia personalità: Silvana vuol dire ‘abitante della selva, del bosco’ e, non a caso, mio marito Alessandro, che mi conosce molto bene, è solito prendermi in giro, dicendo ai miei bimbi: “Lasciate stare mamma! Lo sapete che è un poco foresta, no?”, intendendo con questo termine, suppongo di produzione propria, che la sottoscritta è un po’ selvaggia, non addomesticata! sarà…
Ritornando a noi, l’arrivo del piccolo Carlo Alberto mi aprì ulteriormente la mente e gli occhi sulla difficoltà di conciliare un lavoro come il mio (da bancaria, se lo aveste dimenticato!) con la famiglia. Le dodici fatiche di Ercole, a confronto della mia giornata tipo, erano paragonabili ad una gita di educande…

lunedì 18 aprile 2011

Aurora e lo slalom gigante

'O napulitane se fa sicco, ma nun more
(Il napoletano deperisce, ma non muore)

Chi non conosce la proverbiale capacità del napoletano di adattarsi a qualsiasi situazione e di escogitare sempre qualche stratagemma per sbarcare il lunario? Questa prerogativa gli è propria da tempi immemorabili e ha fatto sì che l’ingegnosità tipicamente partenopea gli permettesse di sopravvivere anche in tempi estremamente difficili, come, ad esempio, il Dopoguerra.
A Napoli, ancora oggi, allo scopo di tirare avanti la baracca, è possibile assistere a geniali ed industriosi espedienti, talvolta al limite della legalità, e che suscitano, soprattutto nello spettatore forestiero, un misto tra stupore, ammirazione e biasimo. La fenomenologia dell’arte dell’arrangiarsi è tipica, in special modo, dei cosiddetti quartieri spagnoli, ossia la parte della città a ridosso della centralissima Via Toledo, realizzati nel XVI secolo allo scopo di accogliere le truppe spagnole a Napoli, per volere del Viceré Pedro Alvarez de Toledo (da cui il nome della famosa, testé citata, strada napoletana, poi ribattezzata, in maniera molto meno fantasiosa e folcloristica, Via Roma).
A proposito dell’inventiva partenopea, ricordo, per esempio, quando divenne obbligatorio l’uso della cintura di sicurezza. Ovviamente, per il napoletano, soprattutto se verace, quella imposizione risultava particolarmente impegnativa: metti, leva, leva, metti… troppa fatica! E allora cosa escogitarono questi ineguagliabili geni dell’escamotage? Ovvio, la T-shirt con la cintura di sicurezza stampigliata in bella mostra sul davanti, che, indossata dall’indolente automobilista, avrebbe tratto in inganno anche il più solerte dei vigili urbani.
E guardate un po’, in tempi a noi più lontani, cosa si inventa Totò in Miseria e nobiltà  per assicurarsi un paio di pizze al giorno con cui sfamare se stesso e suo figlio, anche se talvolta incappa in qualcuno più morto di fame di lui… 




Ma adesso ritorniamo alle mie vicende! La maternità mi aveva messo di fronte ad una verità incontrovertibile, almeno per me: fare bene la mamma e lavorare con scrupolo e coscienza sono due cose che non vanno a braccetto! E, se al momento riuscivo a gestire in maniera decente, ma con molto affanno, la famiglia e il lavoro, era solo perché mi avvalevo della collaborazione di una baby-sitter a cui, dal terzo mese di vita, avevo dovuto affidare Aurora.
A tutto ciò si aggiungeva l’insufficienza del mio appartamentino, adatto al massimo ad ospitare una coppia priva di qualsiasi tipo di hobby. Ovviamente, noi non rientravamo neanche lontanamente nella suddetta casistica, innanzitutto per la presenza della nuova arrivata e dei relativi annessi e connessi (vedi cullina, carrozzina, fasciatoio, solo per citare gli elementi più vistosi) e, in secondo luogo, per gli innumerevoli interessi di mio marito che non perdeva occasione per depositare di tutto e di più nel già martoriato bilocale, partendo da libri e riviste di vario genere per arrivare agli attrezzi più impensabili, volti ad alimentare un futuribile e quanto mai improbabile bricolage.
Urgeva, pertanto, trovare una nuova sistemazione, soprattutto in vista del fatto che la piccina nel giro di un anno avrebbe camminato e, indubbiamente, chiederle di cimentarsi sin da subito in uno slalom gigante tra gli svariati ostacoli della microcasa era un po’ esagerato…
Queste considerazioni ed innumerevoli altre ci spinsero alla ricerca di un appartamento consono alle nostre mutate esigenze.
Aurora aveva poco più di diciotto mesi quando lasciammo la piccola dimora per trasferirci in un appartamento di quattro vani più accessori. In realtà, anche la nuova sistemazione avrebbe avuto vita breve, in quanto nel giro di qualche anno, avremmo cambiato casa ancora una volta!

venerdì 15 aprile 2011

Una nuova Aurora!

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei

C’è poco da fare: i detti non sbagliano mai! Non che uno voglia essere classista a tutti i costi, ma indubbiamente le persone che siamo soliti frequentare sono per certi versi lo specchio del nostro modo di agire, di pensare, di parlare, insomma della nostra vera personalità! A confermare la fondatezza del motto odierno, si dice anche che Si piglia chi si somiglia
Quali sono le mie riflessioni in proposito? Beh, a costo di attirarmi l’antipatia e il dissenso di molti, mi sento di affermare con cognizione di causa che il volemose bene a tutti i costi, il concetto dell’essere tutti amici, tutti fratelli sono una delle tante manipolazioni nazionalpopolari, uno dei tanti luoghi comuni continuamente propinati dai mass media, di cui tutti si riempiono la bocca, ma che, nei fatti, tutti son ben lungi dal praticare.
La verità indiscutibile è che ciascuno di noi sceglie il proprio simile, e ci mancherebbe altro! Non siamo tutti uguali, e su questo nulla da ridire, anzi deve essere così. La diversità è una grande risorsa: se fossimo tutti Rockefeller, chi farebbe l’impiegato o l’operaio? Così come, se fossimo tutti lavoratori dipendenti, chi ci darebbe lavoro?
Ciò che proprio non condivido e che ritengo sia una violazione della libertà personale è l’imposizione di frequentazioni con le quali non si condivide alcuna affinità, nel nome di una fratellanza cosmica a cui nessuno crede.
Badate bene, ciò non ha nulla a che fare con la solidarietà verso i bisognosi o con l’apertura verso la multiculturalità. Qui si disserta sulle persone che scegliamo di frequentare e con le quali, inevitabilmente, dobbiamo avere qualche punto di contatto, qualche condivisione di interessi, qualche compatibilità intellettiva o spirituale. Perché, anche in questo, non siamo tutti uguali…
Giusto per stemperare un po’ le polemiche che queste riflessioni possono sollevare, vi propongo uno spezzone tratto dal film Il mistero di Bellavista di Luciano De Crescenzo, relativo al valore intrinseco della spazzatura, e che si conclude con un pensiero poetico di Luigino, il vate del condominio! Vi renderete conto che esso contiene una simpatica analogia con il proverbio di oggi!




Per ritornare alle mie vicende autobiografiche, vi avevo lasciati alla notizia della mia futura maternità. In effetti, ci avevo messo un po’ di tempo a decidermi per il grande passo, il matrimonio, ma, da lì, bruciai tutte le tappe! Non avevamo ancora festeggiato il primo anniversario di nozze che c’era già una bellissima bimba a farci compagnia: l’Aurora di tutti i miei giorni, nata a fine settembre del 2003.
Anche la mia gravidanza, come tutta la mia vita, non volle smentirsi e fu assolutamente controcorrente! Sin dai primi mesi, tutti mi consigliavano di stare a riposo, di non affaticarmi, come se la cosa più naturale del mondo fosse una malattia invalidante. Io, tuttavia, mi sentivo benissimo, al punto che, fino al giorno prima del lieto evento, svolgevo normalmente, anche se con un po’ di affanno, tutte le faccende domestiche.
Ma la vera rivoluzione fu la scelta dell’ospedale dove appoggiarmi per il parto, scelta che modificai meno di un mese prima della nascita di Aurora. Tutte le mamme possono confermare che con il ginecologo si instaura un rapporto di fiducia molto particolare, vista la circostanza altrettanto delicata, soprattutto dal punto di vista psicologico, in cui è richiesto il suo intervento. Il medico che segue una partoriente con una normale gravidanza deve essere innanzitutto uno psicologo e poi un dottore: con lui la futura mamma instaura un legame molto forte e in lui spesso cerca le risposte ai suoi dubbi e alle sue paure. Il mio ginecologo era, naturalmente, di Napoli e, per i motivi su esposti, era logico aspettarsi che sarebbe stato lui ad assistermi nel parto.
E, invece, colpo di scena!
Il 2003, se ricordate, fu un anno particolarmente caldo, il che mi spinse a trasferirmi, sin dai primi di luglio, nel paese natale di mia madre, in Alta Irpinia, dove in estate si gode notoriamente di frescura ed aria buona. Benché, durante l’attesa, fossi sempre stata restia ad effettuare troppe visite ed ecografie, mi toccava, tuttavia, l’ultimo controllo prima del parto. Eravamo ad agosto e rientrare a Napoli sarebbe stato come passare in un forno crematorio. Significava davvero chiedere troppo a me e alla piccolina! Decisi, allora, di fare un salto all’ospedale del paese e, con mia grande sorpresa, trovai un ambiente efficiente ed accogliente, dove potei effettuare l’ecografia di controllo senza file e lungaggini burocratiche. Il primario, il dott. Eugenio, mi conquistò con il suo fare deciso ed affabile, sicché, su due piedi, senza pensarci su troppo, gli chiesi se potevo partorire con lui. Egli accettò senza alcuna riserva e ciò che, fino ad allora, mi era parso naturale, a quel punto, mi sembrò anche semplice!  

giovedì 14 aprile 2011

Un dubbio amletico

'O bbene tanto se canosce, quanno se perde
(Le cose buone si apprezzano quando vengono a mancare)

Sfido chiunque di voi a provare il contrario: tutti, nessuno escluso, diamo per scontato ciò che abbiamo, sia che si tratti del nostro equilibrio emotivo e psico-fisico, sia che si tratti del nostro benessere materiale. Raggiunto un traguardo, nessuno è consapevole del fatto che esso rappresenta solo un nuovo punto di partenza e mai un definitivo ed inamovibile punto di arrivo. Forse, a voler essere più precisi, non si tratta di una mancanza di consapevolezza, quanto, piuttosto, di una pigrizia dell’anima e di un’eccessiva fiducia nel caso, che, fondendosi in una pericolosa miscela, ci portano a credere che tutto sia duraturo ed invariabile. Viceversa, se solo volgessimo lo sguardo verso il basso, ci renderemmo conto che stiamo camminando sul ciglio di un baratro e che basterebbe una piccola sbavatura per farci precipitare nel nulla.
Tutti noi dovremmo avere ben stampata nella mente questa analogia, non perché ci sia da monito con tono ostile ed intimidatorio, ma affinché, benevolmente, ci ricordi che quanto c’è di bello e positivo nella nostra vita non dipende dalla fortuna, ma dalla nostra ferma determinazione di apprezzare giorno dopo giorno ciò che abbiamo, manifestando apertamente la nostra gratitudine alle persone e alle cose che ci circondano e che ci sono care.
Personalmente ritengo che la nostra vita corporea altro non sia che un breve soffio nell’infinito respiro del mondo. Eppure, per quanto limitata essa possa essere, ha il suo peso, così come la singola goccia che concorre a formare l’oceano. Se solo ci soffermassimo a riflettere su questi aspetti, su quanto sia fugace il tempo di cui disponiamo e quale irripetibile capolavoro sia ciascuna delle nostre esistenze, allora realizzeremmo che ogni giorno è sempre e comunque speciale, anche se apparentemente banale, e che nulla può essere dato per scontato, ma va di volta in volta riconquistato come se stessimo sul punto di perderlo!
E adesso a noi! La pacchia era finita e, dopo il periodo di quarantena (tanto, se ricordate, durò il nostro viaggio di nozze!), la vita di tutti i giorni ci richiamava all’ordine!
Per me cominciava un’esperienza totalmente sconosciuta visto che, fino ad allora, avevo assaporato solo la condizione di single (non tanti anni fa si sarebbe detto zitella!) e di donna in carriera. Ora, invece, eravamo in due, per cui dovevo accudire anche mio marito e la casa. Cominciava, insomma, la lunga parentesi, non ancora conclusa, della casalinga. In realtà, il mio regno era davvero risicato, visto che, come sapete, il mio appartamentino era ‘nu muorzo (traduco: un morso, ossia piccolissimo) ed era appena appena sufficiente per me. Come se ciò non bastasse, Alessandro, che è un divoratore di libri, cominciò pian pianino ad inserire degli infiltrati nel minuscolo alloggio: inizialmente, si trattava di qualche tomo ma, alla fine, la casetta, che prima era un gioiellino, si ritrovò trasformata in una succursale della Biblioteca Nazionale di Napoli! Per non parlare delle attrezzature di vario genere con cui, in maniera altamente improbabile, egli avrebbe voluto occuparsi di bricolage. Non fece altro che stiparle in ogni pertugio rimasto ancora libero, con il risultato finale che avevo l’impressione di vivere in un bazaar piuttosto che in un appartamento. Alla luce di questi sviluppi, indovinate un po’ quale fu il primo regalo che mi portò da sposati? No, non ci riuscirete mai… ebbene, un trapano, signori miei! Sì, avete capito bene! Indubbiamente, era un attrezzo di cui la casa non era ancora dotata e, pertanto, utilissimo, ma non lo si poteva esattamente definire il presente in cima alla lista dei desideri di una novella sposa…
Quando, poi, a gennaio del 2003 scoprii di essere in dolce attesa, un dubbio amletico catalizzò tutte le mie energie: “E adesso il bimbo dove lo metto?”



mercoledì 13 aprile 2011

La quercia e il cipresso

La necessità aguzza l'ingegno
 
Posso confermare che il proverbio di oggi non mente e penso possiate fare lo stesso anche voi! Chi di noi non si è trovato improvvisamente in difficoltà, senza un’apparente via di uscita e, poi, alla fine, ragionando con un po’ di calma, ha scovato il cosiddetto escamotage, la via di fuga dell’ultimo momento?Ciò che, a mio avviso, è sorprendente sta nel fatto che la necessità ci spinge ad ingaggiare una sfida con noi stessi, con i nostri limiti e con le nostre paure, palesando risorse che non ritenevamo possibile ci appartenessero e che, pure, nel momento del bisogno, siamo stati in grado di pescare nel profondo delle nostre energie e della nostra vitalità! Si dice anche che si fa di più con l’ingegno che col denaro, e anche questa è una verità indiscutibile, visto che l’ingegno, essendo un talento, rende genio chi lo possiede, mentre il danaro  rende semplicemente ricchi nel senso materiale del termine. E se, come me, condividete la sequenza  Essere – Fare – Avere, allora sono sicura che anche voi ritenete che il vero ricco sia l’ingegnoso piuttosto che il facoltoso. Del resto, l’esaltazione dell’ingegno a discapito di altre qualità come la forza o la ricchezza, risale a tempi remotissimi. Ricordate la famosa favola di Esopo La cornacchia e la brocca? Eccola qui:
Una cornacchia, mezza morta di sete, trovò una brocca che una volta era stata piena d'acqua. Ma quando infilò il becco nella brocca si accorse che vi era rimasto soltanto un po' d'acqua sul fondo.
Provò e riprovò, ma inutilmente, e alla fine fu presa da disperazione.
Le venne un'idea e, preso un sasso, lo gettò nella brocca.
Poi prese un altro sasso e lo gettò nella brocca.
Ne prese un altro e gettò anche questo nella brocca.
Ne prese un altro e gettò anche questo nella brocca.
Ne prese un altro e gettò anche questo nella brocca.
Ne prese un altro e gettò anche questo nella brocca.
Piano piano vide l'acqua salire verso di sé, e dopo aver gettati altri sassi riuscì a bere e a salvare la sua vita.


La cornacchia e la brocca


E adesso, dalla pillola di saggezza quotidiana, passiamo ad un altro piccolo tassello della mia vita.
I quaranta giorni targati honeymoon erano agli sgoccioli ed il rientro in Italia vicinissimo. Trascorremmo gli ultimi scorci di libertà visitando i dintorni di San Francisco. In particolare, fu deliziosa la puntata a Monterey, con la sua incantevole baia e la sua natura incontaminata. Le spiagge lambite dall’oceano hanno un fascino particolare, molto diverso da quello che caratterizza le coste nostrane. La sensazione che si prova di fronte all’oceano è un forte turbamento, un misto di attrazione e timore, di rapimento e di riverenza: si ha la consapevolezza di essere di fronte ad un gigante, sconfinato e dai profondissimi abissi, che sa essere pacato, ma che può diventare minaccioso ed ostile al di là di ogni ragionevole immaginazione.
Con noi il colosso salato ostentò il suo lato più mite ed indulgente: la nostra passeggiata sulla spiaggia fu accompagnata da un andirivieni delle onde lento e ritmato, come la più dolce delle canzoni d’amore! Anche il sole della California non volle essere da meno: per non sfigurare di fronte a quell’infinita distesa fluttuante, che ogni giorno lo accoglieva nelle sue profondità, ci regalò il tramonto più romantico che si potesse desiderare.
Insomma, in quei quaranta giorni, l’America dai mille volti e dalle mille risorse ci aveva mostrato e donato il meglio e, talvolta, anche il peggio, di sé. Ma una cosa era certa: era stato un viaggio anche dentro di noi, come singoli, ma soprattutto come coppia, alla stregua, parafrasando Gibran, della quercia e del cipresso che, pur stando vicini, non crescono mai l’uno all’ombra dell’altro.    

martedì 12 aprile 2011

Benvenuti a San Francisco!

Ogne scarrafone è bello a mamma soja
Ogni scarafaggio è bello agli occhi della madre

Chi non conosce questo proverbio? Penso che in assoluto sia uno dei più noti anche al di fuori dei confini strettamente partenopei, citato persino in una famosa canzone di Pino Daniele. E’ un eufemismo utilizzato per dire che un figlio, per brutto che sia, è sempre bello agli occhi di sua madre. E ci mancherebbe altro! Il problema, forse, si presenta allorquando l’agguerrita e rampante mammina pretende che il proprio figlio sia il più bello anche agli occhi del resto della popolazione mondiale! Per cui, nel momento in cui te la trovi di faccia mentre sei al supermercato o mentre aspetti che tuo figlio esca da scuola, e non hai proprio alcuna possibilità di mimetizzarti nell’ambiente circostante -per esempio fingendoti un fustino del Dash o uno scoiattolo che saltella da un ramo all’altro nel cortile alberato della scuola-, allora sai che stavolta ti toccherà ascoltare le mirabolanti imprese del piccolo Dodò, che all’età di due anni recitava a memoria La Divina Commedia, scriveva correntemente cirillico ed aramaico ed era in prossimo a conseguire il brevetto di pilota di linea! Fortunatamente, quando sei stata quasi messa al tappeto dal capitolo XXVII delle Novelle del Piccolo Genio, arriva provvidenziale, a salvarti da uno stato permanente ed invalidante di rincoglionimentus praecox, lo squillo del cellulare, per cui approfitti del nano secondo in cui la mammina killer riprende fiato, per allontanarti e sottrarti rapidamente allo sguardo dell’ignara aguzzina, che, dopo aver perseverato ancora qualche attimo, punta una nuova preda e le si fionda addosso… Stavolta, l’hai scampata, ma ricorda che sei in debito dei rimanenti seicento e tredici capitoli sulla vita del bambino del secolo!
E adesso rituffiamoci nelle avventure ben più modeste della bancaria per caso!
Lasciato il Nevada, io ed Alessandro, in groppa al nostro cavallo meccanico, raggiungemmo il Far West! Avevo già visitato in passato la California, ma l’idea di farvi ritorno non mi dispiaceva affatto! La nostra meta era San Francisco, con rapide puntate anche nei dintorni. Il ricordo che avevo della città del Golden Gate Bridge, dove ero stata nel gennaio del 2000, era quello di un luogo soleggiato, caratterizzato da una grande vivacità culturale, da un deciso eclettismo architettonico e dalle famosissime ripide colline che ne rendono unico il panorama rispetto a quello di tutte le altre città americane.
A distanza di quattro anni, ritrovai immutate tutte queste caratteristiche, con un’unica, ragguardevole differenza. La crisi economica che stiamo attualmente cavalcando era già visibilmente tangibile anche in un gioiello turistico come il cuore di San Francisco, e, laddove qualche anno prima vedevi solo pulizia e floridezza, era comune incontrare tanti senzatetto in cerca di elemosina o percorrere strade dai marciapiedi sudici e cosparsi di cartacce. Del resto, avrei dovuto aspettarmi uno spettacolo del genere, visto che anche New York, rispetto alla mia ultima visita, aveva mostrato chiaramente segni di recessione e di decadimento (e parlo di zone nevralgiche come Wall Street o la Fifth Avenue!).
Insomma, viste come si erano messe le cose, era proprio il caso di rivedere anche il vecchio andante Hai trovato l’America!