lunedì 28 febbraio 2011

Mr. Ermanno!

Chi troppo vuole, nulla stringe

Il proverbio odierno è un chiaro invito alla moderazione e alla temperanza, valori che, forse, oggigiorno abbiamo un po’ tutti accantonato.
Lungi da me recitare la parte della moralista! Non mi sento assolutamente all’altezza di un simile ruolo, ma, senza ombra di dubbio, non posso non constatare un impulso dilagante, sempre più incontenibile, ad agire per il proprio tornaconto, a volere sempre di più, non solo in termini di beni materiali, ma anche in termini di onnipresenza e di prestigio personale. E non mi riferisco solo ai grandi sistemi, quelli politici ed economici, per intenderci, ma anche alla vita di tutti i giorni, nelle sue semplici manifestazioni quotidiane.
Penso, ad esempio, ai miei figli, in particolare alla mia primogenita, Aurora, 7 anni. Nonostante la sua tenera età, ha una volontà ferrea e una caparbietà non comuni, che, unite alla sua vivacità e curiosità, ne fanno una donnina in miniatura. E’ molto attenta e capace di percepire ogni minima parola o ogni minimo movimento che avvengano all’interno delle mura domestiche. Insomma, le piace avere il controllo della situazione ed essere aggiornata su tutto, e questa sua propensione la spinge spesso ad intraprendere più cicli di azione di quanti ne possa realmente gestire. E, allora, vedi che, mentre è intenta a svolgere i compiti, un occhio e un orecchio sono impegnati a seguire ciò che fanno i fratelli, oppure vedi che, appena cominciata una nuova attività extrascolastica, vuole già iscriversi a tutti i corsi possibili ed immaginabili, in quanto attratta dall’idea di essere al centro di tutte le novità che la circondano.
Ma, poi, immancabilmente, com’è ovvio, non riesce a seguire tutto nella maniera che vorrebbe, e, allora, io la invito alla moderazione, ricorrendo, per l’appunto, alla metafora espressa nel proverbio odierno.
Chissà se anche nei grandi sistemi, il gotha dei consiglieri ha mai pensato di impartire un simile insegnamento ai destinatari dei loro suggerimenti?
E adesso ritorniamo alle vicende rivoluzionarie! Il mio primo giorno in Capogruppo fu caratterizzato, per ovvi motivi, da disorientamento ed agitazione. Ero in un ambiente totalmente estraneo, nei cui corridoi si avvicendavano molteplici colleghi, ma nessuna tra quelle facce mi era familiare. Tutto mi sembrava freddo e lontano mille miglia!
Mentre ero assorta in questi pensieri, fui distolta dall’arrivo di un uomo bruno, normolineo, dall’abbigliamento informale, che, ai miei occhi, si distingueva per un particolare, ormai, di altri tempi: un bel paio di mustacchi neri!
Appena arrivato, mi salutò telegraficamente, chiedendomi se fossi, per caso, la nuova unità assegnata all’ufficio. Alla mia risposta affermativa, mi invitò, in maniera altrettanto scarna, ad entrare nella stanza.
Quando fummo seduti l’uno difronte all’altra, separati dalla sua scrivania, presentò se stesso e le mansioni dell’ufficio di cui era responsabile: l’Ufficio Marketing e Controllo di Gestione. Quindi, fissandomi dritto negli occhi, con uno sguardo fermo e, all’apparenza, severo, mi chiese quale fosse la mia formazione e da dove provenissi. Gli risposi succintamente, un po’ intimidita dalla immobilità del suo sguardo, anche se avrei dovuto capire subito che quel particolare che mi intimoriva era, invece, segno di grande rettitudine e bontà d’animo.
Avete, infatti, mai notato che solo chi, per natura, ha qualcosa da nascondere o non ha un animo cristallino, durante una conversazione distoglie ripetutamente lo sguardo dai vostri occhi?
Il mio nuovo capo, invece, non batté ciglio, sereno ed imperturbabile, per l’intera durata del nostro colloquio. Alla fine, mi invitò a prendere posto alla mia scrivania e a cominciare la mia prima giornata di lavoro al Centro Direzionale.
Non avrei mai e poi mai immaginato che dietro quei baffoni e quell’apparenza burbera, si celava colui che, in seguito, sarebbe diventato uno dei miei più grandi amici, sul lavoro e fuori.
Qual era il suo nome? Ermanno, che comincia per 'E' come eterna amicizia!

sabato 26 febbraio 2011

Ritmi di Bahia!

Fatt' accattà 'a chi nun t'sape
(Fatti comprare da -ovvero, venditi a- chi non ti conosce)
 
Tutti i napoletani connessi possono testimoniare che questo è uno dei proverbi che vanta il maggior numero di citazioni. In particolare, vi si ricorre quando qualcuno, che si conosce a fondo, al di là della semplice apparenza, è solito agire in maniera non proprio cristallina per il suo tornaconto personale. E dirò di più! Costui, ritenendo di essere il più dritto sulla faccia della Terra, pensa, addirittura, di poter passare inosservato al vaglio altrui…
In simili circostanze, i napoletani, che, al momento giusto, sanno essere caustici e lapidari, smorzano ogni velleità dell’incauto furbone facendo uso, per l’appunto, del proverbio odierno, che raggiunge il malcapitato con la penetrazione e la precisione di una stilettata al fianco, lasciandolo tramortito e, al tempo stesso, sbigottito per essere stato così prontamente smascherato!
Insomma, un soggetto del genere può ingannare unicamente chi non lo conosce bene, e per una sola volta, in quanto anche il più sprovveduto tra gli uomini, se raggirato, farà tesoro della propria esperienza, e difficilmente incapperà nello stesso errore!
E adesso a noi! Ero bancaria (per caso!) da soli nove mesi e già la fortuna mi aveva arriso, sottraendomi ai ritmi forsennati e congestionati della filiale! L’ufficio Marketing e Controllo di Gestione della Capogruppo di Napoli necessitava di un’ulteriore unità e, non so per quale motivo, avevano individuato proprio me! Mi piace credere che io stessa mi fossi attratta quella svolta nel mio brevissimo curriculum lavorativo, non perché, come già detto, non avessi trovato in agenzia un ambiente di lavoro congeniale, ma perché, da buona Gemelli incline alla volubilità e all’irrequietezza, i cambiamenti e i rinnovamenti costituivano il mio pane quotidiano! Sicché, agli inizi di settembre del 1999 approdai in Capogruppo e cominciai ad essere una donna in carriera. Naturalmente, ero la prima a non riconoscermi nel modo più assoluto in quel ruolo, tanto che, con amici e colleghi che si complimentavano per la mia nuova mansione, ero solita ridimensionare la situazione, definendomi una donna in carriola!  

Il primo giorno arrivai sul posto di lavoro con largo anticipo, precedendo anche il responsabile dell’ufficio, e, pertanto, lo aspettai accomodandomi nelle invitanti poltrone in pelle che erano poste nel corridoio, proprio difronte alla porta che avrei dovuto varcare. La Capogruppo aveva e tuttora ha sede in un moderno edificio di sette piani, ubicato nel Centro Direzionale di Napoli, ossia una vera e propria cittadella di avveniristica concezione architettonica, destinata al solo passaggio pedonale e che si propone come il polo di attrazione per gli uffici di rappresentanza delle principali aziende ed imprese napoletane e non. Visto dalla collina del Vomero, questo moderno agglomerato, con l’aggressività dei suoi grattacieli, conferisce al panorama della città un aspetto del tutto insolito ed inatteso, soprattutto perché esso va ad affiancarsi alle linee ben più morbide ed armoniose dell’attiguo centro storico.
L’ufficio a cui ero stata assegnata si trovava, per la precisione, al quinto piano, il piano della Direzione della Capogruppo, dove, pertanto, si respirava un’aria quanto mai ovattata e surreale. Provenendo da quel bazaar arabo che era l’agenzia di Fuorigrotta, mi saltò subito all’occhio, ma anche all’orecchio, la differenza sostanziale tra la vita del bancario di trincea e quella del bancario da salotto. In tutto l’edificio si percepiva in maniera direi quasi tangibile la lentezza dei ritmi di lavoro, tipica di tutte le strutture centrali. Non fraintendetemi, per carità! Anche lì si lavorava, ma con la rilassatezza che qualche mese prima avevo assaporato in un breve soggiorno di piacere in Brasile, a San Salvador de Bahia. Motivo per cui, da allora ero solita dire che in Capogruppo si lavorava con i ritmi di Bahia e non fui mai smentita dalla realtà dei fatti!
Ma per i dettagli della mia nuova avventura lavorativa vi rimando al prossimo post!

venerdì 25 febbraio 2011

Fuorigrotta, addio!

Non serve la scienza a chi non ha esperienza

Questo proverbio dovrebbe essere bene impresso sulle targhe, ma soprattutto nella testa, di medici, avvocati, ingegneri e professionisti vari che ormai affollano, se non addirittura, sovraffollano la nostra quotidianità!
Non me ne voglia a male chi è stato insignito di uno di questi titoli dopo anni di onorata carriera universitaria! Sicuramente, tanti sono coloro che hanno messo e mettono in buona pratica il proverbio odierno, ma, purtroppo, le esperienze raccolte nel corso degli anni con persone che si spacciavano illustri professionisti sono state tutt’altro che confortanti. Essendo una persona ottimista e tollerante di natura, ho sempre concesso il beneficio del dubbio, lasciando un’ulteriore chance allo ‘scienziato’ di turno, ma l’evidenza dei fatti ha quasi sempre dimostrato che la mia fiducia era stata mal riposta.
Chiunque può constatare o testimoniare che l’incompetenza e l’approssimazione sono all’ordine del giorno, ma il dettaglio ancor più sgradevole e fastidioso è la presunzione e la boria che molti di questi soggetti ostentano. Spesso, la professione non viene svolta con coscienza, ma semplicemente rappresenta il mezzo per raggiungere il fine, ossia il denaro. Se a tutto ciò aggiungiamo una realtà innegabile, ossia che ormai c’è una vera e propria inflazione di professionisti, più di quanti realmente necessitano, il quadro diviene davvero completo. Qual è la naturale conseguenza di questa situazione paradossale? Una lotta per la sopravvivenza tra i moderni ‘poveri’, allo scopo di accaparrarsi il cliente. E ciò, naturalmente, va ad ulteriore discapito della deontologia.
E adesso, alla luce di queste incoraggianti considerazioni, torniamo alle avventure della giovane guerriera!
La permanenza all’agenzia  6, al di là di ogni mia possibile previsione, durò esattamente quanto una gravidanza, ossia nove mesi. Allo scoccare del termine, ignara di ciò che favorevoli sinergie avevano operato nei miei confronti, venni convocata nell’ufficio del direttore. Costui mi comunicò che, dalla settimana successiva, era stato disposto il mio trasferimento in Capogruppo, ossia la struttura centrale di riferimento per le filiali delle province di Napoli, Caserta e Benevento. Nella fattispecie, ero stata assegnata ad un ufficio che dipendeva direttamente dal Titolare della Capogruppo, ossia dal direttore dei direttori di tutta l’area geografica di riferimento. L’ufficio in questione si occupava di marketing e di controllo di gestione.
Inutile dirvi che l’inattesa notizia mi lasciò, a dir poco, senza parole. Da un lato, com’è tipico della mia natura, ero affascinata dall’ignoto di una diversa destinazione e di una diversa mansione, ma dall’altro mi dispiaceva lasciare la mia nuova famiglia a cui mi ero tanto legata. Tuttavia, non ci pensai su più di mezzo minuto e, seguendo, come sempre, il mio sesto senso, accettai!
Quando comunicai la novità ai miei colleghi, credetemi, non mi aspettavo reazioni così sentite e spontanee: tutti furono contenti per me, ma, allo stesso tempo, manifestarono sinceramente la tristezza di non lavorare più insieme. Vollero organizzarmi una festa di addio, durante la quale mi travolsero con regali, sorprese, ma, soprattutto, con il loro affetto! Quella festa era il segno tangibile che gli addii non esistono se si continua a riservare alle persone care un posto nel proprio cuore! E fu esattamente ciò che feci, anche per rendere meno triste la materiale separazione dall’agenzia 6!
Ricordo ancora con gioia ed emozione tutti i miei colleghi: Rosaria, la guerriera dell’agenzia, Teresa, dolce ed eterea, la mia omonima Silvana, travolgente e simpatica, oltre che preparatissima, Sandro, un gentiluomo di altri tempi, burlone e sagace, Lorenzo, su cui mi sono già ampiamente soffermata, Anna, la mamma dell’agenzia, sempre impeccabile e disponibile.
A tutti giunga con la maggiore intensità possibile il mio pensiero augurale di ogni bene e felicità!



giovedì 24 febbraio 2011

L'arrivo del maremmano


Chi fraveca e sfraveca nun perde mai tiempo
(Chi fa e disfà non perde mai tempo)

Molto spesso ci lamentiamo della troppe cose che abbiamo da fare e, in alternativa, sogniamo di stare ai Caraibi, ad oziare sotto una palma, accarezzati dalla brezza marina e rinfrancati da una tonificante bibita fresca…
In realtà, almeno per quanto mi riguarda, una prospettiva del genere mi alletta al massimo per un paio di settimane, ma poi sento il bisogno di ritornare alle mie occupazioni, in quanto solo il produrre qualcosa mi fa veramente sentire viva e rafforza il mio morale.
Non parlo, naturalmente, di ritornare ad un mondo in cui ci si sente schiavi delle circostanze e da cui si vorrebbe fuggire, ma del mondo che abbiamo voluto per noi stessi e per il quale proviamo gratitudine e viva soddisfazione.
In un simile scenario, l’ozio non costituisce assolutamente una priorità, anzi, ci sentiamo così pieni di energia e di voglia di fare che non riusciamo a stare nella pelle: dobbiamo continuamente “fravecare” e “sfravecare”, e quel costante, ripetuto ciclo di vigorìa, che, ad uno sguardo poco attento, darebbe come risultato solo un pugno di mosche, in realtà rappresenta il motore stesso della nostra sopravvivenza, del nostro sentirci vivi e creativi.
L’atto di fare e disfare risveglia  immancabilmente nei miei ricordi un’immagine vivida, che sembra quasi sgusciare fuori dalla dimensione eterea del pensiero e prendere corpo come se si stesse davvero svolgendo sotto i miei occhi incantati: l’immagine è quella di mia madre che sfila vecchi lavori a maglia di sua creazione per ricavarne, se possibile, capolavori ancor più precisi e di ancor più rara bellezza!
Mamma Enza può essere definita, senza far torto a nessuno, l’incarnazione della vera “Mani di fata”: grazie alla sua creatività, alla sua precisione, all’amore che fin da bambina ha nutrito per i lavori fatti a mano, è una vera artista in tutto ciò che sia cucito, ricamo, maglia o uncinetto. Da piccole, io e mia sorella Daniela potevamo vantare sempre i vestiti più belli, in quanto creazioni esclusive di mia madre, che, ancora oggi, nonostante i suoi quasi 85 anni splendidamente portati, continua a deliziarci con le sue incantevoli produzioni manuali. Lei, sì, che di tempo ne ha perso veramente poco!
Ma, adesso rituffiamoci nel flusso impetuoso dei racconti rivoluzionari!
Non ci crederete, ma la mansione di operatrice di sportello presso l’agenzia di Fuorigrotta, nonostante i ritmi di lavoro frenetici, alla fine si rivelò un divertimento. Proprio così, avete sentito bene! Giacché, in un modo o nell’altro, dovevo rendere vivibile al meglio la situazione in cui io stessa mi ero ingabbiata, pensai bene che il male minore fosse scegliere il lato umoristico della faccenda piuttosto che quello tragico…
In questo intento fui aiutata, e non poco, dall’arrivo di un nuovo cassiere, un ragazzo maremmano di quasi dieci anni più giovane di me, anche lui neo assunto e anche lui dotato del medesimo spirito di adattamento della sottoscritta. Il nuovo arrivato, Lorenzo, prese il posto di una delle ragazze, la più taciturna tra le due, che, intanto, aveva ottenuto il trasferimento in una filiale del Lazio. Le sue fattezze, grande e grosso com’era, con un viso aperto e un sorriso contagioso, erano già garanzia della bontà del prodotto! Scoprii solo dopo che era anche lui del segno dei Gemelli e ciò rafforzò ulteriormente la sintonia che fin da subito ci aveva accomunati. Da allora iniziò un periodo di grandi risate, in quanto Lorenzo era sveglio come pochi, capace di apprendere il lavoro alla velocità di Speedy Gonzales, ma soprattutto dotato di un innato senso dell’umorismo, che unito ai suoi natali toscani, produceva una miscela esplosiva. A tutto ciò, si aggiungeva una perfetta padronanza dell’inglese, cosa comune anche alla sottoscritta, il che ci permetteva di commentare liberamente le situazioni tragicomiche che spesso si venivano a creare nella filiale. Eravamo, ormai, in grado di fare le operazioni di sportello, parlare in inglese e ridere, tutto allo stesso tempo, mentre il cliente se ne stava di fronte in un’assoluta, beata incomprensione di ciò che stava succedendo sotto i suoi occhi!
In questo clima di buonumore, sicuramente le giornate trascorrevano più veloci ed anche la fatica era più leggera…

mercoledì 23 febbraio 2011

Una guerriera vestita da angelo

Chi ha tempo non aspetti tempo!

E’ ciò che mi piace ripetere ai miei figli, ed in particolare alla mia primogenita, Aurora, sette anni, quando devono assolvere ai loro compiti di bambini e temporeggiano. Si sa che, in particolare quando si è piccoli, il piacere prevale sempre sul dovere e cercare di ricondurre un bambino al senso di responsabilità è impresa ardua, soprattutto perché quel senso è in lui naturalmente poco sviluppato se non inesistente. Pertanto, l’unico modo in cui riesco più o meno a fare breccia nella volontà ferrea di Aurora è quello di prospettarle il tempo che avrà a sua disposizione per giocare e divertirsi spensieratamente se solo prima dedica un’ora, una piccola, misera ora dell’intero pomeriggio, a fare i compiti. 
In genere, riesco nell’impresa, ma, se la fortuna non mi arride perché la piccola guerriera si ostina a tergiversare, allora, quando la metto alle strette e le dico che, data l’ora, i compiti vanno fatti senza altre scusanti, lei solitamente comincia a protestare… E sapete, a quel punto, come metto fine al moto insurrezionale? Dicendole che se lei non ha aspettato il tempo, ora è il tempo che non può più aspettare lei!
E ritorniamo alle imprese della bancaria in erba…
Il soggiorno all’agenzia di città n. 6 comportò, come vi ho già accennato, un notevole impegno, sia fisico che mentale. Non ero abituata a fronteggiare senza sosta un esercito di clienti che tutti i giorni assediavano la filiale ancor prima che gli sportelli aprissero al pubblico. I ritmi di lavoro erano così intensi che non avevamo neanche il tempo di andare al bar a prendere un caffè. Fortunatamente, sopperiva la bontà (o, forse, la pietà!) dei correntisti che, immancabilmente ci facevano pervenire un buon approvvigionamento dal vicino bar–pasticceria.
Con il passare dei giorni, la mia manualità e la mia abilità andavano migliorando, anche se non potevo essere definita propriamente un fulmine: a fine giornata, il numero delle operazioni compiute dalle colleghe era decisamente superiore al mio. Tutto ciò mi veniva fatto notare quotidianamente, con costanza molesta, dal mio direttore che, probabilmente, pensava, in questo modo, di mettermi il sale sulla coda e trasformarmi in una sorta di automa. Egli mi consigliò, addirittura di acquistare un libro in cui qualche folle prodigava consigli agli schiavi moderni circa i modi di aumentare la loro produttività. Non sapeva, il poverino, di essere incappato in una guerriera vestita da angelo. Con i miei modi gentili, immancabilmente svicolavo, e, se proprio il tipo voleva il faccia a faccia, non mi tiravo certamente indietro, anzi, mi divertivo ad affilare la mia dialettica, fino a portare l’affondo finale. Ed allora, non ce n’era per nessuno!
Alla fine, il direttore dovette rassegnarsi e limitarsi a commentare da solo i tabulati di fine giornata…
In realtà, egli, con il passare del tempo, fu costretto a riconoscere che la mia minore velocità era compensata da un valore aggiunto di tutto rispetto: da buona Gemelli ascendente Gemelli, naturalmente incline alla comunicatività, amavo stabilire un rapporto di cordialità ed amabilità con i clienti, molti dei quali, alla fine, preferivano un’operazione più lenta, ma servita con allegria e buonumore. E in una filiale congestionata come quella di Fuorigrotta, stemperare un po’ l’atmosfera pesante e carica di stress che spesso veniva a crearsi, era proprio ciò che ci voleva!
A poco a poco andavo prendendo confidenza con la nuova realtà da cui ero stata letteralmente travolta e rispetto alla quale non vi era stata alcuna possibilità di graduale adattamento. Ma, com’è tipico della mia natura, fui in grado di prendere solo il meglio anche da quell’esperienza, rendendomi impermeabile alle situazioni o alle pressioni che mi stavano troppo strette.
Svolsi sempre al meglio il mio lavoro, ma non permisi mai al lavoro di imprigionarmi nei suoi ingranaggi. Mai feci uno straordinario oltre l’orario previsto, cosa, invece, comune a buona parte dei miei colleghi, soprattutto se fuori sede. Ritenevo che al di là di quelle quattro mura pulsasse la vita, quella vera, e sette ore e mezzo sacrificate al lavoro mi sembravano più che sufficienti…

martedì 22 febbraio 2011

Mi butto nella mischia...

A lavà 'a capa 'o ciuccio se perde acqua e sapone
(A lavare la testa all'asino si perde acqua e sapone)

Come al solito, il napoletano è sorprendente nella sua immediatezza e nella sua efficacia: immaginate un asino (in napoletano si traduce ciuccio, termine la cui incisività e carica raffigurativa non può non saltare all’occhio!), recalcitrante e cocciuto, che si impunta a voler fare di testa sua, sordo a qualsiasi comando, perseverante nella sua beata rozzezza… ebbene, perdereste mai il vostro tempo a lavargli la testa, nell’illusione che esso assurga ad un cavallo? La risposta è scontata, e allora chiedetevi perché spesso ci ostiniamo ad impiegare male le nostre energie e il nostro tempo, cercando di migliorare persone che non hanno alcuna volontà di crescere o di allargare le proprie vedute! E’ assolutamente inutile vestire i panni delle crocerossine o dei buoni samaritani quando ciò non ci viene chiesto: rischieremmo solo di raccogliere rifiuti e delusioni e, in ogni caso, il risultato finale non cambierebbe.
La propensione al cambiamento, al rinnovamento non può essere in alcun modo inculcata, soprattutto se si va a calpestare un terreno arido su cui mai nessun seme attecchirà. L’energia in tal senso deve prendere vita dentro di noi: basta anche una sola scintilla, che può essere, poi, proficuamente alimentata con l’aiuto esterno. Tuttavia, se questi presupposti non si creano, è inutile, anzi dannoso, perseverare.
Ma, a questo punto, carissimi lettori, è giunto il momento di ritornare a ciò che tutti attendete con curiosità e trepidazione, ossia le novelle della ormai bancaria per caso…
L’approdo all’agenzia n. 6 costituì un vero e proprio trauma, abituata com’ero ai ritmi lenti e naturali della vita vacanziera senese. La massiccia e costante affluenza di clientela, dall’istante in cui lo sportello apriva al pubblico fino al momento in cui esso chiudeva, mi fece capire fin da subito che quella non sarebbe stata propriamente una passeggiata per Via Caracciolo (per i non napoletani, trattasi del meraviglioso lungomare di Napoli, da cui è possibile rimirare l’omonimo golfo in tutta la sua bellezza)! Più che nella filiale di una banca, mi sembrava di essere stata catapultata in un bazaar arabo, in cui la gente si accalcava, chiacchierava, talvolta litigava coloritamente, scherzava, si annoiava, ma ogni giorno, immancabilmente, fedelmente era sempre là…
Non vi sarà difficile immaginare che, in simili circostanze, dovetti imparare il più velocemente possibile l’arte della sopravvivenza. Nei primi due mesi, bruciai quattro chili e potevo almeno vantarmi di frequentare l’unica palestra della città in cui il praticante viene pagato piuttosto che sborsare mensilmente la quota dell’abbonamento.
Le casse erano quattro, ma normalmente ne venivano aperte solo tre, in quanto l’agenzia era sottodimensionata e mancava, per l’appunto, di un operatore di sportello. Le mie colleghe erano due ragazze toscane: una era taciturna a tal punto che ricordo vagamente il timbro della sua voce, e, comunque, anche quando parlava, lo faceva così sommessamente che, per captare il suo verbo, occorreva a dir poco il cornetto acustico del mio bisnonno! L’altra, invece, era molto sveglia e dotata di una parlantina che compensava la pochezza di parole della sua compagna di banco.
All’inizio annaspavo in quel mare di operazioni e transazioni ancora sconosciute: la mia agitazione, se rappresentata in un grafico, avrebbe avuto esclusivamente un trend in ascesa, con una pendenza che sarebbe stata proibitiva anche per l’Uomo Ragno! A ciò si aggiungeva la freddezza delle mie colleghe di sportello, che non sempre erano inclini ad aiutarmi laddove mi arenavo, vuoi anche per la pressione esercitata dalla clientela in perenne attesa. Fortunatamente, il sostegno mi veniva proprio da chi era l’ultimo dei sospettabili, ovvero il cliente che, dopo aver atteso pazientemente il suo turno, generalmente non si mostrava infastidito dalla mia imperizia, ma, anzi, mi incoraggiava e rassicurava. “Signorì, avimmo aspettato tanto, mo’ nu minuto ‘e cchiù, nu minuto ‘e meno…” (traduco: “Signorina, abbiamo aspettato tanto, per cui un minuto in più, uno in meno…”) era quello che solitamente sentivo dirmi al di là del vetro blindato.
Eppure, non immaginavo che, quando avrei dovuto dirle addio, anche la 6 mi sarebbe mancata!

lunedì 21 febbraio 2011

Qui comincia l'avventura...

A carnevale ogni scherzo vale

Signore e signori, ci avviciniamo a grandi passi ad uno dei momenti più attesi dai bimbi, ma, penso, anche da tanti adulti: il carnevale!
Come molti sapranno, benché facente parte della tradizione cristiana, e, in particolare, cattolica, il nostro carnevale, in realtà, ha tratto ispirazione da feste molto simili, esistenti già nell’Antica Grecia e nell’Antica Roma. L’elemento comune a tutte era l’esternazione del bisogno di sovvertire temporaneamente l’ordine e le regole per dare spazio allo scherzo e, talvolta, alla dissolutezza. I vecchi panni, quelli indossati nella vita di tutti i giorni, venivano letteralmente buttati via, e sostituiti da un mascheramento che consentiva, anche se per poco, di sentirsi davvero una persona diversa, libera da vincoli e gerarchie.
Dunque, in passato il carnevale, nel suo più profondo significato, era essenzialmente la manifestazione di un istanza di rinnovamento e una sorta si ammortizzatore sociale, poiché, dopo la breve parentesi di caos e sregolatezza, riemergeva un rinnovato periodo di ordine, garantito fino all’inizio del carnevale seguente.
Purtroppo, questo spirito oggi è andato perso, e il carnevale, ad eccezione dei carnevali maggiori, si è ridotto ad una festa per i bimbi.
Non andrebbe, invece, sottovalutato che il mascheramento è assolutamente terapeutico, poiché, paradossalmente, consente a coloro che sono costretti ad indossare una maschera invisibile per un intero anno, di essere davvero se stessi proprio nel momento in cui ne indossano una vera. Il mascheramento permette loro di manifestare la loro saggia follia e, in quella manifestazione, di essere finalmente liberi…
E adesso a noi! Era il mese di novembre del 1998 e, a distanza di dodici anni, rientravo definitivamente (ma nulla è per sempre…) nella mia città natale, Napoli.
Mi attendeva l’ultima settimana di formazione presso la Capogruppo, ossia la struttura di riferimento per tutte le filiali della provincia di Napoli, Caserta e Benevento. Poi sarei stata catapultata nell’agenzia di città n. 6, ossia, per chi è pratico di Napoli, l’agenzia di Fuorigrotta, il quartiere, per intenderci, dove si trova lo Stadio San Paolo.
La settimana passò veloce, in un mondo, quello della Capogruppo, dai ritmi lenti ed ovattati, ritmi di Bahia, mi è sempre piaciuto definirli, ma la realtà che mi aspettava nell’agenzia era tutt’altra cosa…
Il lunedì successivo mi presentai con largo anticipo dinanzi alla sede di lavoro, ubicata nell’ampio e lungo Viale Augusto. Da piccola ero stata a Fuorigrotta solo un paio di volte e la mia immaginazione era stata colpita proprio da quella strada a due corsie, separate da una fila interminabile di palme. Avevo avuto la percezione di essere in un posto con un‘energia totalmente diversa dal resto della città e che esercitava su di me una strana attrazione.
Fuorigrotta, che deve il suo nome alla sua posizione "al di fuori della grotta", in riferimento al fatto che, sin dall'epoca romana, è collegata da una o più grotte al rione di Mergellina, è  un quartiere relativamente nuovo, la cui costruzione iniziò nel periodo fascista e si concluse negli anni Cinquanta. Da sola conta oltre diecimila abitanti più di Siena…
Dentro di me, soprattutto per indorare la pillola, pensavo che l’assegnazione a quella dipendenza in particolare non fosse casuale, ma generata da una strana alchimia che mi aveva condotto proprio nel posto che, in passato, aveva esercitato su di me tanto fascino. E poi Fuorigrotta era il quartiere in cui la mia cara Maria Rosaria era nata e vissuta e, quindi, qualche scintilla della sua inesauribile energia doveva pur brillare ancora da qualche parte!    
Immersa in questi pensieri, venni improvvisamente distolta dal sopraggiungere del vice direttore dell’agenzia, un ragazzo di qualche anno più grande di me, che, con aria sorniona, mi diede il benvenuto in questa nuova avventura.
A dire la verità, il tipo mi snocciolò una serie di considerazioni circa le sorprese, non tutte esattamente positive, che mi attendevano in quella filiale, lasciandomi alquanto interdetta.
Essendo, tuttavia, forte del mio carattere e della maturità acquisita in trentuno anni di vita, non mi scomposi più di tanto e aspettai pazientemente che la giornata di lavoro avesse inizio.
In effetti, il sostituto, seppur giocando sadicamente con me, come il gatto avrebbe fatto con il topo, non era poi andato tanto lontano dalla verità!
Ma per i dettagli di quell’incredibile avventura lavorativa, vi rimando al post di domani!

sabato 19 febbraio 2011

Sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico!

Zompa chi po' zumpa', dicette 'o ranavuóttolo
(Salti chi può, disse il rospo)

Il proverbio odierno è una chiara allusione allo spirito di sopravvivenza presente in ciascuno di noi. Difatti, allorquando siamo minacciati da una perdita, da un danno, da un pericolo, non necessariamente a livello fisico, ma anche a livello emotivo, prima o poi scattano dentro di noi le naturali autodifese che ci permettono di risalire la china. E’ ovvio che se una persona sceglie, consciamente o inconsciamente, l’autodistruzione, non avrà alcuna motivazione a saltare il fosso, ma, anzi, più probabilmente, starà vegetando nell’attesa che un evento risolutore metta la parola ‘fine’ a questo processo autolesionista. In situazioni del genere, c’è ben poco che possiamo fare, se non essere trascinati a fondo anche noi. Ecco perché la saggezza antica, che raramente sbaglia, ci suggerisce di farci rospi e di saltare il fosso finché siamo in tempo!
Peccato che non sempre abbiamo il coraggio e la determinazione di seguire i giusti consigli, soprattutto se sussurratici dal nostro intuito!
E’ quanto successe a me, arrivata al momento della decisione finale: che fare a quel punto? Mollare tutto o perseverare, per capire fin dove ero capace di spingermi? Ero consapevole che chiunque alla mia età e senza un’occupazione fissa avrebbe accettato quel posto ad occhi chiusi, che chiunque mi avrebbe scambiata per matta! Eppure, qualcosa in me ancora si dibatteva, ancora cercava di affermare le sue ragioni, benché con voce sempre più flebile e soffocata dal precipitare degli eventi. Quello stesso fine settimana avrei dovuto preparare i bagagli e partire per Napoli, per affrontare l’ultima settimana di formazione nella locale Capogruppo, e, quindi, essere proiettata nel mondo del lavoro, quello vero.
Decisi di perseverare… Contavo sulla mia innata capacità di adattamento e sul mio ottimismo, ma, in fondo in fondo, sapevo fin da allora di illudermi: uno spirito libero chiuso in gabbia o si riprende la libertà o muore!
Con questo macigno che mi opprimeva i sensi, mi preparai alla partenza. Naturalmente, ero tutto sommato una privilegiata, visto che rientravo comunque nella mia città e, in particolare, nella casa paterna. Eppure, non sapevo darmi pace.
Si dice che “Partire è un po’ morire!”, ma, nel mio caso, l’addio a Siena fu doloroso oltre ogni possibile immaginazione: sebbene avessi avuto un certo margine di tempo per predispormi al commiato, inconsciamente avevo sempre procrastinato quel momento, forse nella speranza che avvenisse qualcosa di inatteso a modificare il corso degli eventi. Ma sorprese non ne arrivarono e l’inizio della quarta settimana era sempre più vicino.
Messa alle strette dalla mia insulsa testardaggine, la domenica mattina caricai i bagagli in macchina e partii per Napoli. Da allora, 450 chilometri si sarebbero frapposti fra l’inferno della prigionia e il paradiso in terra!

venerdì 18 febbraio 2011

"Lascia o raddoppia?"

Il riso fa buon sangue

Che questo proverbio contenga una grande verità lo sappiamo tutti, eppure spesso, troppo spesso, dimentichiamo di metterlo in pratica. Siamo oltremodo arrabbiati con la vita per concederci il lusso di una grassa risata! E la cosa più grave è che coscientemente ci ostiniamo a perseverare in questo stato di alienazione, piuttosto che dare una bella scrollata al nostro umore come si fa con una coperta piena di acari!
Ho letto di persone che hanno usato le risate come terapia nella lotta al cancro e sapete chi l’ha spuntata? Beh, alla fine, un soldato apparentemente inerme ma con una corazza luccicante e coriacea è riuscito a respingere un intero esercito di malefici invasori.
Personalmente, non mi sottraggo mai alla possibilità di fare un bel pieno di risate: le mie fonti preferite sono il grande Totò o il cartoon Wily Coyote, che trovo assolutamente irresistibili! Ma spesso anche io e mio marito cominciamo a ridere a crepapelle, partendo da una sciocchezza sulla quale poi si innesca una reazione a catena… basta che uno dei due alzi un dito, per voler aggiungere qualcosa alla situazione di per sé esilarante, che l’altro ha già rincarato la dose di risate, lacrime agli occhi comprese, senza neanche ricordare cosa aveva originato quel fiume in piena di allegria!
Alla luce di quanto detto, cosa dovreste fare adesso per migliorare il vostro umore e, di conseguenza, le vostre difese contro gli insulti delle malattie? Guardare un bel notiziario in TV o mettere su un DVD di Stanlio e Ollio?  
Per la cronaca… a casa mia non esistono apparecchi televisivi!
E adesso torniamo ai racconti della bancaria per caso!
Le tre settimane di formazione a Colle Val d’Elsa erano trascorse e l’ultimo di quei ventuno giorni era alla fine arrivato! Esso costituiva, come sapete, una scadenza fatidica per ciascuno di noi, in quanto avremmo appreso la filiale di assegnazione.
L’abbinamento dipendente–destinazione era stato digitato al computer e, poi, materialmente stampato da qualche solerte impiegato su indicazione del funzionario bancario di competenza. Quindi, il prezioso foglio era stato piegato e messo in una busta giallo ocra, a sua volta accuratamente sigillata. A recarla, nell’ultima tappa del suo iter, era il funzionario che per ultimo aveva vestito i panni del formatore.
Ho ancora viva nella mente l’immagine di quest’uomo sulla cinquantina, né alto né basso, né grasso né magro, insomma un tipo decisamente anonimo, ma incontrovertibilmente distinguibile nel suo incedere per un particolare che saltava subito all’occhio: un’appendice della sua mano destra, indovinate un po’ di quale colore? Ovviamente, giallo ocra!
Il latore della preziosa missiva si fermò al centro dell’aula e ci chiamò a raccolta: il momento era solenne!
Aprì lentamente la busta, facendo attenzione a non danneggiarne il contenuto e, quindi, con la gravità che si addice al Mike Bongiorno dei tempi d’oro, quello, per intenderci, del domandone finale a “Lascia o raddoppia?”, cominciò a snocciolare i tanto attesi abbinamenti! Si procedeva in ordine alfabetico, per cui immaginavo di essere posizionata nella parte bassa dell’elenco. Man mano che il funzionario dava voce alla parola scritta, andavo realizzando che il 95% delle destinazioni erano ubicate in Campania e, in particolare, a Napoli! “O Dio! no! fa’ che non capiti a Napoli, ti prego! fa’ che la mia destinazione sia Ischia!” Ero, ormai, talmente sedata dall’effetto “Toscana”, che l’idea di un eventuale rientro nella caotica città partenopea,  per quanto la mia città, mi si parava davanti come un terribile spettro.
L’unica possibile alternativa a Siena era Ischia, la meravigliosa isola verde che in passato avevo girato in lungo e in largo e per la quale era sbocciato un innamoramento simile nell’intensità e nel coinvolgimento a quello provato per la città toscana.
Con il cuore a mille, mentre andavo affollando la mente di queste rapide congetture, all’improvviso udii scandire il mio nome: “Planeta Silvana… Napoli, Agenzia di città n.6”!
Mi credete? Avrei preferito essere Daniele nella fossa dei leoni!

P.S. Sono molto curiosa di sapere chi è l’assiduo lettore o lettrice che, con cadenzata puntualità, mi segue nientemeno che da Singapore! Carissimo o carissima, se ci sei batti un colpo!

giovedì 17 febbraio 2011

Ma che bella sorpresa!

Integro con piacere il post odierno con un post aggiuntivo su invito della mia cara amica blogger Dory di http://giocosamente.blogspot.com/
Oggi Dory mi ha attribuito un premio, il “Liebster Blog”, il cui intento è quello di far conoscere blog ancora poco noti o, nati da poco (scusate il gioco di parole!), come il mio.
                                                       
Ecco i passi da seguire per salire sulla ribalta a ritirare il premio:

1) accettare il premio e scrivere un post in merito (fatto!)
2) inviare il premio a 3/5 blog meritevoli, ma ancora poco conosciuti
3) inserire nel post il link della persona che ci/vi ha attribuito il premio

Pertanto, ringrazio ancora Dory di http://giocosamente.blogspot.com/
, che ha voluto sostenere il mio blog, e segnalo con immenso piacere: