lunedì 16 maggio 2011

Senza titolo

Campar senza fatica è una voglia molto antica

Chi di noi non desidererebbe vivere di rendita e trascorrere le sue giornate dedicandosi alle proprie passioni, ai propri hobbies o, molto più semplicemente, al dolce far niente?
Penso che la risposta sia scontata, e non nego di essere anche io in prima fila. Il problema dei tempi moderni è che la maggioranza di noi è costretta dalle circostanze a svolgere, giorno dopo giorno, un lavoro o un’attività che non le è congeniale, con la inevitabile conseguenza che 1/3 della giornata si trasforma in una vera e propria prigionia. Il tempo rimanente, tolto quello che fisiologicamente dobbiamo riservare al riposo, viene spesso utilizzato per smaltire le arrabbiature o lo stress accumulati sul lavoro, con la conseguenza che, nel frattempo, la vita passa e alla fine, nella migliore delle ipotesi, ci ritroviamo con una magra liquidazione e una bella ulcera!
La responsabilità di questo stato di cose (e su questa mia affermazione vi invito seriamente a riflettere) dipende dalla mentalità che ci è stata da sempre inculcata. “Studia e trovati un buon lavoro!”: penso che tutti noi abbiamo udito questi consigli dai nostri genitori. Eppure, se vogliamo realizzare il sogno, a mio parere, assolutamente legittimo, di vivere di rendita, non è quella la strada da seguire. Desidero fare due precisazioni in proposito. Innanzitutto, vivere di rendita non significa essere dei fannulloni buoni a nulla che campano come parassiti sulle spalle altrui. Anche chi vive di rendita deve avere le competenze adeguate e deve quotidianamente impegnarsi per mantenere integro e, ancor meglio, per accrescere il proprio capitale. In secondo luogo, dobbiamo entrare seriamente nell’ottica che la sicurezza del posto di lavoro, a qualsiasi livello e in qualsiasi settore, non esiste più, e, pertanto, a maggior ragione, i vecchi insegnamenti e consigli, volti ad assicurare un futuro dignitoso, hanno ben poco valore. Nella totale incertezza e variabilità che ci circondano, l’unico dato stabile è il seguente: occorre riprogrammare i nostri circuiti e schemi mentali, adeguandoli alle mutate condizioni della società moderna e acquisendo la consapevolezza che il posto fisso, nonché il concetto di sicurezza finanziaria a vita, che ad esso si era soliti associare, è ormai una chimera.
In un simile scenario, apprendere nuove abilità che ci consentano entrate alternative a quelle dal lavoro dipendente, diviene una necessità. Le opportunità di guadagno, offerte soprattutto da internet, sono molteplici, sebbene non bisogna illudersi che si tratti di guadagno facile (quello, almeno  legalmente, non esiste!). I servizi che è possibile offrire tramite la rete sono infiniti e con costi contenuti. L’e-commerce è un settore in continua crescita su cui, acquisite le opportune competenze, si potrebbe pensare di puntare.
Perché, allora, forti di questa consapevolezza, a nessuno viene in mente di rivedere il nostro sistema scolastico in termini rivoluzionari? Perché non insegnare ai nostri ragazzi come costruirsi il proprio futuro in maniera proattiva, piuttosto che incanalarli verso il tunnel del lavoro dipendente, del posto fisso, che, mai come oggi, sono ‘specie’ in estinzione?
Meditate, gente, meditate!
E adesso ritorniamo alle vicende, a questo punto, della casalinga per scelta.
Il periodo che ebbe inizio a seguito delle mie dimissioni, e che, tuttora, prosegue, fu un periodo di… liberazione! Ebbene, sì! Chiamatemi irresponsabile, incosciente, avventata, ma che ci posso fare? La libertà sopra ogni cosa!
Il lavoro che avevo tanto amato, non nella sostanza, bensì nelle relazioni umane che esso implicava, era divenuto troppo esigente per una tre volte mamma come me. Esso avrebbe assorbito oltremodo il mio tempo e le mie energie e ben poco spazio, anche qualitativamente parlando, mi sarebbe rimasto per la mia famiglia. Sapevo quale impegno comportasse il lavoro, anche part-time, in filiale, e non ero disposta fare la fine della mamma nevrotica. Pertanto, ad oggi, guardandomi indietro, non mi pento della mia scelta fatta, né, in proposito, ho mai avuto ripensamenti. Indubbiamente, ho la fortuna di avere accanto un compagno che non ha mai messo in discussione la decisione presa, ma che, anzi, condivide appieno i primari valori della famiglia. E poi conto molto sulle mie capacità e sul mio ottimismo, per cui continuo a ripetermi che, se ho scelto di cambiare direzione, è perché so, dentro di me, che qualcosa di più grande si sta preparando a nascere.   
Come avrete intuito, la mia autobiografia sta volgendo al termine ed è anche questo il motivo per cui non ho voluto dare un titolo al post odierno: qualunque scelta mi sembrava riduttiva e, comunque, avrebbe suggellato in maniera visibile la conclusione di un magnifico viaggio. Non che non abbia altro da raccontare: il mondo vissuto ed il mondo interiore di ciascuno di noi sono talmente vasti ed articolati che mille pagine non basterebbero a rendere loro onore. Penso, piuttosto, che, attraverso questo mio scrivere, abbia raggiunto quanto mi ero proposta: dare un esempio tangibile di come oggigiorno sia possibile andare controcorrente, di come sia possibile dare inizio ad una rivoluzione silente, ma non sottomessa, attraverso la quale condividere con gli altri valori ed ideali, ahimè, ormai sopiti. E il consenso e l’affetto che immancabilmente mi avete dimostrato sono prova che la mia non è pura illusione o lucida follia. Il mio messaggio, per quanto modesto possa essere, è il seguente: non permettete a nessuno, ma innanzitutto a voi stessi, di considerarvi come parte sostituibile di un ingranaggio, non permettete a nessuno, ma innanzitutto a voi stessi, di dire che non siete in grado di fare qualcosa, non permettete a nessuno, ma innanzitutto a voi stessi, di sopprimere i vostri sogni in un lavoro da 1.200 euro al mese e in un appartamento di 60 mq. Pensate in grande, sognate in grande, agite in grande! Ognuno di voi è un capolavoro e non permettete a nessuno, ma innanzitutto a voi stessi, di affermare il contrario!
Con tutto il mio cuore. Silvana.

P.S. Come potrei chiudere questo bellissimo cammino fatto insieme se non con un proverbio?
Eccolo, è un invito per voi:
Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia!

venerdì 13 maggio 2011

L'acronimo MPS

'O patrone song’ io, ma chi cumanna è mia moglie!
(Il capofamiglia sono io, ma chi comanda è mia moglie!)

Sacrosante parole! Sfido chiunque sia ammogliato a dimostrare il contrario. Una volta, quando le donne, come scherzosamente dice mio marito, non erano di già delle suffragette e indossavano ancora la sottana, gli uomini erano soliti dire che in casa i pantaloni li porta mia moglie, a dimostrazione del fatto che, anche nei tempi andati, a comandare tra le mura domestiche era quasi sempre la donna. Del resto, tutto ciò è ampiamente comprensibile se si pensa che, soprattutto in passato, l’uomo lavorava e, dunque, provvedeva al sostentamento economico della famiglia, mentre la donna era la ‘ragioniera’ di casa, ossia si occupava di amministrare oculatamente le entrate, in modo che, a fine mese, i conti quadrassero. Non è un caso che la casalinga venga pure definita, in maniera ormai desueta, massaia, ossia colei che attende alla masserizia. Con tale termine si intendono le cose mobili e le suppellettili che sono in una casa, ma con significato estensivo, esso vale anche per risparmio, moderazione nello spendere (da cui far masserizia, ossia usare parcamente, accumulare). Capite, dunque, quale irrinunciabile pilastro sia da sempre la donna di casa. Anche nell’attuale società, dove spesso veste i panni di lavoratrice extra-domestica, continua, in ogni caso, a ricoprire lo strategico ruolo di massaia, gestendo con perizia e accortezza il bilancio familiare, al pari dell’amministratore delegato di una affermata holding.
Per quanto mi riguarda, devo riconoscere che il proverbio di oggi mi calza a pennello, visto che l’ultima parola sulle decisioni relative alla casa spetta immancabilmente a me! Tuttavia, mio marito Alessandro, da vero furbacchione, ha subito trasformato questo scettro, tutto al femminile, in un’arma a doppio taglio. Cercherò di spiegarmi meglio: visto che a prendere le decisioni, in ultima analisi, sono sempre io, egli ha escogitato una sorta di legge del contrappasso! Nella fattispecie, ogni qualvolta viene contattato da un call center (leggasi: organizzazioni autorizzate ad attentare alla nostra privacy), venda esso vini, tappeti, quadri, polizze assicurative, mutande o spilli da balia, cosa risponde immancabilmente alle loro richieste, in una maniera talmente candida da far sfigurare vergognosamente persino il povero nanetto Mammolo? “Fatemi un piacere: chiamate mia moglie! E’ lei che decide! Se mi presento a casa con uno dei vostri …vini, tappeti, quadri, ecc…, rischio di prendermi una bella lavata idi testa!”, e dà loro il mio numero di telefono. Geniale, vero? Non solo egli si disfa in quattro e quattr’otto del molesto ‘tampinatore’, non solo fa la parte della povera vittima e fa fare a me la figura dell’aguzzina, ma, alla fine della giostra, sono io a dovermi sorbire lo sproloquio telefonico senza fine, volto a fare di me un ulteriore numero positivo nella statistica giornaliera delle vendite. Io, però, li frego tutti! Ispirata dall’estro creativo del momento, adduco giustificazioni, inventate di sana pianta, così credibili ed inespugnabili che anche il più agguerrito dei venditori alla fine si arrende e depone le armi. Qualcuno osa timidamente tornare alla carica, ma senza molta convinzione, avendo intuito che dall’altro capo del telefono c’è una parete di granito con pendenza 100%, dunque, resistenza massima, possibilità di appiglio meno di zero! Ho reso l’idea?
E adesso torniamo a ciò che sicuramente attendete con grande trepidazione: il seguito delle mie avventure!
Come avevo intuito sin dal primo giorno del 2010, l’ulteriore proroga di sei mesi volò, e, in men che non si dica, mi ritrovai a fare i conti con il calendario. Mancavano circa trenta giorni al primo di luglio, trascorsi i quali sarei dovuta rientrare a lavoro, stavolta senza alcuna possibilità di replica. Urgeva, a questo punto, guardarsi seriamente allo specchio e decidere il da farsi. Avevo sviscerato con Alessandro tutti i miei possibili dubbi, timori, perplessità. Lui mi aveva ascoltata con grande attenzione e partecipazione, ma, alla fine, una sola cosa era certa ed incontrovertibile: la decisione finale spettava esclusivamente a me! 
Sicché, bandendo ogni indugio, mi sedetti al computer e digitai la mia lettera di dimissioni. Il destinatario della missiva era l’Ufficio del Personale del Monte dei Paschi di Siena, la mia banca, per cui avevo avuto l’onore e il piacere di lavorare per dieci anni. Dietro l’acronimo MPS, apparentemente freddo e distante, il mio cuore percepiva, in realtà, un mondo che avevo amato e con cui mi era piaciuto identificarmi, nonostante fossi divenuta bancaria per caso! Si celavano tutti i miei amici-colleghi, le meravigliose esperienze di vita che essi avevano saputo donarmi, la fatica delle intense giornate di lavoro che l’immancabile complicità e ilarità che ci accomunava riusciva sempre a stemperare, la gioia di ritrovarmi ogni giorno in mezzo a loro che avevo imparato ad amare e rispettare come la mia seconda famiglia. Insomma, sentivo fortissimo il senso di appartenenza alla mia banca e penso che questa mia percezione, così volitiva, abbia fatto sì che, anche alle dipendenze di qualcun altro, io mi sia sempre sentita libera, e, sopra ogni cosa, non abbia mai tradito me stessa.
Non posso che essere grata all’azienda che tanto benevolmente mi ha accolta, poiché, e lo ribadisco, essa non è solo un logo o un bilancio, ma è molto di più! E’ qualcosa di vivo e pulsante, una casa abitata da molteplici persone che avrei voluto conoscere una ad una, ma che, in fondo, in qualche modo già mi appartengono per il solo fatto di aver condiviso la stessa realtà e la stessa missione. E state pur certi che ognuna di loro, per quanto critico e distante possa essere l’atteggiamento che ostenta nei confronti di quella realtà e di quella missione, in fondo ci crede ancora. Perché un montepaschino porta un marchio a vita, impresso nell'anima! E se ve lo dico io, potete crederci! 


mercoledì 11 maggio 2011

'Na tazzulella 'e cafè

Al povero mancano tante cose, all'avaro tutte

Avete mai pensato a che brutta malattia sia l’avarizia? Anzi, più che una malattia, la definirei una vera e propria prigione in cui lo spilorcio involontariamente si rinchiude, senza rendersi conto, pertanto, che la prima vittima del suo deplorevole comportamento è innanzitutto se stesso. L’attaccamento al denaro oltre ogni ragionevole motivazione fanno dell’avaro una persona odiosa, a tratti insopportabile, in quanto egli condiziona anche la libertà delle persone che gli sono intorno, negando loro la sua partecipazione a qualsiasi tipo di iniziativa che comporti un’uscita finanziaria.
Oltretutto, vivere con un soggetto del genere deve essere quanto meno opprimente, poiché si ha verosimilmente la sensazione che qualunque cosa si faccia, anche la spesa al supermercato, venga vagliata minuziosamente dall’occhio attento e dalla mano tirata del terribile ‘mastino’.
Fortunatamente, in casa non ho mai avuto esempi di tirchieria, anzi, tutt’altro.
Mio padre aveva un rapporto con il denaro che mi è sempre piaciuto, sin da quando ho maturato la capacità di originare valutazioni personali. Non era uno spendaccione, ma, probabilmente per esorcizzare la fame e le privazioni che aveva sofferto in tempo di guerra, gli piaceva rifornire periodicamente la casa di scorte di cibo, detersivi, prodotti per l’igiene personale e suppellettili varie che avrebbero potuto far fronte alle esigenze di una truppa di stanza all’estero. Amava, inoltre, essere sempre alla moda ed era attratto dalla tecnologia (pur capendone ben poco!), motivo per cui si circondava di tutte le novità appena divenivano reperibili sul mercato. Tuttavia, spesso utilizzava il denaro anche per aiutare gli altri: ricordo quando acquistò da un amico in difficoltà un intero corso di inglese, con annesse videocassette, di cui, ovviamente, non fece mai uso, o di tutte le volte che sosteneva la famiglia allargata quando le circostanze lo richiedevano. Era una persona solare, di gran cuore, a cui piaceva fare del bene disinteressatamente. Insomma, per lui i soldi erano un mezzo e non il fine.
Guardate, invece, fino a quale punto può spingere la venerazione per il Dio Denaro! Ho scelto per voi un paio di spezzoni tratti dal film del 1950 47 morto che parla, interpretato dall’impareggiabile Totò. Ancora oggi, usiamo in tono scherzoso l’intercalare tipico dell’avarissimo barone Antonio Peletti (Totò), ossia il famoso E io pago!


 


E adesso, dopo aver sbirciato nelle vicende del barone Peletti, torniamo a quelle della bancaria per caso!
Il 2010 si aprì nella più allegra spensieratezza, visto che avevo ancora sei mesi di libertà dinanzi a me, prima di dover rientrare a lavoro. Quello spiraglio di tempo, non so perché, mi pareva un’eternità: mi sentivo sicura, gioiosa, capace di conquistare il mondo. Eppure, quei giorni, uno dopo l’altro, sarebbero inevitabilmente passati e, a quel punto, mi sarei trovata davvero davanti ad un bivio inevitabile. Ma, nel frattempo, non volevo pensarci. Mi sembrava di essere un po’ come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, animata com’ero da un sano spirito epicureo misto ad una buona dose di incoscienza. Decisi che, avendo ancora del tempo libero, lo avrei impiegato in cose che mi appassionassero o, più semplicemente, mi sarei goduta la vita nel suo scorrere quotidiano, fatto di cose e di gesti piccoli, ma irrinunciabili. Per esempio, avete mai pensato a quanto sia bello al mattino, quando i bimbi ancora dormono, poter assaporare in tutta calma una tazzina di caffè, inebriati dall’aroma dei suoi vapori? E poter godere di quella breve, ma intensa parentesi senza il pensiero assillante di dover fare in fretta, in fretta, in fretta, perché dopo poco bisogna uscire di casa ed andare a lavoro? Vi assicuro che una sensazione del genere è impagabile, in quanto ti fa sentire davvero libera, non solo come persona fisica, ma soprattutto come spirito. Perché, vedete, amici carissimi, che ci crediate o no, ciascuno di noi è un capolavoro, unico al mondo. La nostra unicità è, per l’appunto, il risultato del nostro intricato, misterioso, affascinante mondo interiore, che va coccolato e coltivato senza frenesia. ‘Na tazzulella ‘e cafè al mattino, sorseggiata con le giuste pause e con la consapevolezza di vivere un momento sacro ed intoccabile, è il modo migliore per cominciare ogni giorno queste pratiche rinvigorenti per l’anima.
E voi, che marca di caffè usate? 



martedì 10 maggio 2011

Il Monte dei Paschi di Siena bussa sempre due volte!

'O pparlà chiaro è fatto pe' l'amice
(Il parlare chiaro è fatto per gli amici)

Questo proverbio trova il suo equivalente italiano nel famoso Patti chiari, amicizia lunga, motto che, se osservato nei rapporti con gli altri, permetterebbe di evitare parecchie delusioni e, in taluni casi, vere e proprie rotture. Perché, a ben vedere, all’origine dei litigi che portano ad allontanamenti definitivi, vi è sempre un’incomprensione di fondo, magari lieve, che il mancato chiarimento ingigantisce al punto da far degenerare il rapporto.
In base alla mia esperienza personale, devo ammettere che non sempre ho dato ascolto all’adagio in questione. Il motivo è da ricercare essenzialmente in una sorta di sensibilità mista a pudore che spontaneamente nutro nei confronti dell’amico e che fa sì che molte intese vengano prese tacitamente piuttosto che esplicitate verbalmente. Difatti, mi sembra quasi che sottolineare con la parola l’affiatamento suggellato dal magico rapporto dell’amicizia costituisca qualcosa di simile alla profanazione di un tempio. E’ come se venisse messo in dubbio il telepatico scambio di sensazioni e di emozioni che si stabilisce tra due amici, scambio che la parola detta varrebbe solo a svilire anziché a rafforzare. Il problema è che spesso attribuiamo agli altri, soprattutto se trattasi di persone a noi care, la nostra stessa sensibilità o educazione, e, pertanto, ci aspettiamo che esse si comportino allo stesso modo in cui ci comporteremmo noi nella medesima situazione. Quando ciò non si verifica, ne scaturisce un inevitabile senso di delusione, generato soprattutto dalle aspettative, disattese, che avevamo riposto in quella persona. Alla delusione si accompagna anche la prostrazione, causata dal prendere atto della fallibilità delle nostre valutazioni riguardo al prossimo. Dunque, quando un’amicizia si incrina, la conseguente amarezza deriva non solo dal comportamento manchevole imputabile all’amico, ma anche dalla consapevolezza di ciò che, d’altro canto, avremmo potuto fare o dire per evitare che la situazione precipitasse.
Alla luce di tutte queste considerazioni, penso che, in definitiva, sia opportuno non dare per scontati i comportamenti altrui, anche se riteniamo di poterli prevedere nei minimi particolari. Meglio peccare di franchezza, a costo di apparire indelicati agli occhi dei nostri amici, ma porre le basi per un rapporto chiaro, duraturo e di reciproco rispetto! Non lo pensate anche voi? Del resto, i detti antichi non sbagliano mai…
E adesso ritorniamo alla mia modesta autobiografia! Il 2009, ultimo anno da casalinga, visto che (in teoria!) avrei dovuto vestire nuovamente i panni da bancaria a partire dal 2010, stava letteralmente volando! Ogni giorno trascorso veniva crocettato nel mio calendario mentale come 24 ore sottratte al tempo residuo di libertà! Insomma, il rientro a lavoro, che per molte mamme incarna l’evasione dalla prigionia domestica, per me rappresentava, invece, un vero e proprio incubo. Il mio regno era diventato la Casa, il mio re mio marito e le mie ancelle e cavalieri i miei figli. In quel mondo non era previsto sottostare a regole che non fossero quelle autoimposte, ingurgitare la colazione, scapicollarsi per essere sempre puntuali, guidare in stato di semi-incoscienza maledicendo la sveglia che aveva interrotto il più beato dei sonni, combattere con clienti fuori dal tempo presente che pretendono dai loro investimenti un rendimento del 200%, accontentarsi di un panino di gomma nella laconica pausa-pranzo, tornare a casa con l’utilitaria più stufa di te di fare sopra e sotto, riprendere un’altra giornata di lavoro appena varcata (con un solo piede!) la soglia domestica, scaricare sulle persone che ti circondano (marito e figli) tutto il peso dello stress accumulato a seguito della meravigliosa giornata! E l’indomani, tutto riprende esattamente uguale al giorno precedente: altro giro, altra corsa! Ma dove porterà, poi, tutto questo correre?
Lo scenario futuro, verosimile al 99% a quello prospettato, non mi allettava neanche un po’! Persino stordita da una massiccia miscela di vodka siberiana ed ecstasy, non avrei potuto vederla diversamente!
Mi attivai, pertanto, per sapere se esisteva un’ulteriore possibilità di prolungare il soggiorno a casa oltre quanto mi fosse già stato concesso. Scartata la possibilità di mettermi in malattia, visto che malata non ero (anche se, purtroppo, questa è una pratica di cui qui in Italia si abusa), mi fu suggerita come unica prospettiva quella di rivolgermi direttamente all’Ufficio del Personale a Siena, chiedendo per motivi familiari una deroga di qualche mese, ovviamente non retribuita. Inoltrai la richiesta tramite sindacato e, sinceramente, non so come né perché, il termine per il rientro a lavoro venne slittato di sei mesi.
La mia euforia era alle stelle, sebbene fossi consapevole che dopo 180 giorni il problema MPS, invariato, avrebbe bussato di nuovo alla mia porta. Ma, nel frattempo, poteva succedere di tutto, o, almeno, questa era la mia illusione! 
 


venerdì 6 maggio 2011

Brava, brava Mariarosa!

Il difficile sta nel cominciare

Quante volte, spinti da un moto di entusiasmo ed euforia, pensiamo di dare una svolta alla nostra vita, di sperimentare qualcosa di ignoto, di imbarcarci in una nuova avventura? E quante volte diamo effettivamente concretezza a questi propositi? L’esempio classico è quello della dieta che tutte le donne si prefiggono di cominciare lunedì prossimo e che, immancabilmente, viene procrastinata, adducendo le scuse e le giustificazioni più fantasiose.
Eppure, per esperienza personale e, penso, comune a ciascuno di voi, la cosa più difficile, come dice bene l’adagio in apertura, sta nel cominciare. Ogni cambiamento, anche minimo, nella nostra routine quotidiana implica un disagio, in quanto dobbiamo in qualche modo riassestare tutti i nostri meccanismi, soprattutto quelli automatici. Le nostre abitudini, la ripetitività della nostre giornate rappresentano la nostra coperta di Linus, ciò che ci fa sentire sicuri e protetti… ma, io aggiungerei, anche spenti ed apatici, a meno che non siamo davvero grati e soddisfatti della nostra condizione!
Provate, invece, a pensare se nel giro di un mese doveste, ad esempio, trasferirvi con tutta la famiglia, i vostri interessi, il vostro lavoro, in un'altra nazione o, addirittura, in un altro continente, non importa quale sia il motivo di tale spostamento. Come vivreste questa metamorfosi?
Personalmente, e penso che la mia autobiografia ne sia testimonianza, adoro e ricerco il cambiamento! L’emozione che ti dà l’idea di dover affrontare una nuova situazione è impagabile in termini di crescita personale e di superamento dei propri limiti e incertezze. Fuor di dubbio, il cambiamento ci rende più forti e consapevoli di prima, in quanto dobbiamo necessariamente attivarci in maniera propositiva, se non vogliamo che le inusitate circostanze prendano il sopravvento.
Lo smarrimento che molti provano negli inevitabili momenti di transizione della vita è, secondo me, dovuto più all’idea della imponderabilità della trasformazione in atto, che alla trasformazione stessa. Ciò che, dunque, dovremmo allenare è la nostra capacità di lasciarci affascinare dal rinnovamento, vivendolo alla stregua di una primavera in esplosione di fragranze e colori, piuttosto che come la caduta in un baratro di cui non si vede il fondo. Nel momento in cui, dopo mille comprensibili dubbi e ripensamenti, decidiamo di tuffarci in una nuova avventura, il peggio è passato, poiché, che ci piaccia o meno la musica, siamo ormai in ballo!




E adesso, nuovo tassello nel mosaico dell’artista ‘rivoluzionaria’!
Se avete seguito fin qui le mie vicende, avrete, forse, notato come tutto si era progressivamente allineato nella direzione che desideravo: avevamo acquistato una bella casa, ampia e adatta alle esigenze della famiglia, godevo della collaborazione della Tata Perfetta, non ero ancora oppressa dall’impegno del lavoro, vivevo in un paesino immerso nel verde, dotato praticamente di tutti gli uffici pubblici (Sant’Angelo dei Lombardi è addirittura sede di Tribunale) e delle scuole di ogni grado. Mi avevano persino messo a disposizione il centro benessere più strepitoso che si sia mai visto! Cosa potevo chiedere di più? A dire la verità, avrei desiderato solo un’altra piccolissima, trascurabile aggiunta: fermare il tempo! Ebbene, sì! Desideravo l’impossibile, in quanto, man mano che passavano i giorni, percepivo quasi fisicamente che il mio inseguitore (il lavoro in banca) si avvicinava sempre di più, al punto da avvertirne il fiato sul collo. Questa sensazione non mi faceva sentire a mio agio, soprattutto perché costituiva un intralcio al libero movimento del mio spirito. Era come se esso avesse solo l’illusione di poter spaziare come e dove voleva, ma, in realtà, quando osava troppo, c’era un legaccio che gli strattonava il collo e lo riportava con i piedi per terra: “Tu mi appartieni!”, diceva con tono perentorio. E quell’altro si dimenava, nel vano tentativo di liberarsi dalla stretta, ma, ahimè, senza sortire alcun effetto che non fosse quello di sentirsi più prostrato ed avvilito di prima. Ve lo immaginate? Una rivoluzionaria come me ridotta alla stregua di un criceto in gabbia… Qualcosa mi diceva che la situazione non poteva andare avanti così. Anche in questo caso, urgeva trovare una via d’uscita. Occorreva, insomma, essere un po’ la Mariarosa del famoso spot del lievito Bertolini nel Carosello anni 70, la rammentate? Il ritornello recitava: Brava, brava Mariarosa, ogni cosa sai far tu! Qui la vita è sempre rosa solo quando ci sei tu!
Evviva la Vita in Rosa!
   

 Mariarosa e il guerriero tutto nero

giovedì 5 maggio 2011

L'erba del vicino non sempre è più verde...

'A gallina fa ll'ove, e a' 'o gallo l'abbruccia 'o culo
(La gallina fa l'uovo, ed al gallo brucia il deretano –della serie “Chi fatica, lo fa in silenzio e chi non fa nulla, si lamenta"-)

Che ridere! Questo è uno dei proverbi napoletani che preferisco, soprattutto per la sua capacità descrittiva e la sua portata umoristica. Peccato per i non partenopei, che non possono apprezzare appieno la ricchezza di sfumature di questa bellissima lingua, la sua ironia, la sua musicalità.
In aggiunta, la mia predilezione per questo motto ha radici di carattere affettivo, in quanto era uno degli intercalare tipici di Babbo Diego, che, come avrete intuito, non disdegnava la saggezza popolare quando doveva esprimere il suo pensiero! Tuttavia, per chi non lo ha conosciuto è difficile capire come egli, con la sua personalità genuinamente partenopea, sapesse infondere a quei proverbi un’incisività e una carica emotiva maggiore, se possibile, di quelle proprie, in maniera connaturale, della lingua napoletana. In altre parole, quando si trovava a commentare una circostanza o ad esprimere un parere, lo faceva non solo scegliendo il motto che calzava a pennello per l’occasione, ma coloriva le sue parole con l’inflessione e il timbro di voce appropriati e con una mimica facciale così eloquente da sopperire a mille parole non dette.
A distanza di tantissimi anni, ricordo sempre con grande ilarità una scena finemente commentata da Babbo Diego ed avente come protagonista un mio compagno del liceo, Enzo. Egli, come me, era un infiltrato nel quartiere Vomero, sede della nostra scuola, poiché io abitavo nel vicino rione dei Colli Aminei e lui, addirittura, a Marano, un Comune dell’hinterland napoletano. La relativa distanza da casa mi obbligava ad utilizzare i trasporti pubblici, ma, alle volte, mio padre, recandosi a lavoro, mi dava un passaggio in macchina, consentendomi di arrivare a scuola con largo anticipo. In una di quelle occasioni, io e Babbo Diego ci stavamo intrattenendo in macchina per ammazzare il tempo, in attesa dell’apertura dell’edificio scolastico. Era una bigia giornata di inverno, una di quelle giornate in cui nulla avrebbe invogliato ad alzarsi dal letto tiepido e confortevole. Ad un tratto, tra i leggeri vapori della foschia, vedemmo apparire all’orizzonte una figura che avanzava incerta, in stato di semi-incoscienza: era Enzo, che, per i suddetti motivi, doveva ancora realizzare di trovarsi presso il Liceo Galileo Galilei, quartiere Vomero, Napoli, Italia. Se al grigiore del tempo aggiungete la levataccia che tutte le sante mattine era imposta al poverino affinché arrivasse in orario a scuola dalla non vicina Marano, sarete disposti a giustificare con maggiore indulgenza il suo stato! Ebbene, come commentò Babbo Diego la vista dello spaesato ragazzo, che, palesemente, era con il pensiero ancora disteso nel suo morbido giaciglio? Me pare Pulecenella spaurato d' 'e maruzze (traduco: Mi sembra Pulcinella spaventato dalle lumache). E non aggiungo altro!
Ciò detto, riprendiamo il bandolo della matassa!
Dal 2009 in poi, la nuova vita in paese fu praticamente in discesa, visto che tutte le urgenze (quella della casa più ampia, della tata, dell’adattamento dei bambini) erano, ormai, ampiamente e felicemente superate. Il tempo del rientro a lavoro era (relativamente!) lontano, in quanto avevo ancora a disposizione tutto l’anno per esaurire i permessi e le aspettative che la legge mi concedeva. La chiamata alle armi era, dunque, prevista per il 4 gennaio 2010!
In attesa di rientrare a lavoro, sentivo fortissima l’esigenza di riprendere le mie abitudini e, per quanto possibile, di coltivare nuovamente le mie passioni. Ciò di cui avvertivo maggiormente la necessità era il movimento fisico, per cui mi misi alla ricerca di una palestra presso la quale iscrivermi. Memore delle esperienze passate, che per oltre vent’anni mi avevano riservato solo una serie di scantinati elevati a pseudo-centri sportivi, mi aspettavo di trovare altrettanto in zona, soprattutto in considerazione del fatto che stiamo parlando di paesini di montagna, il cui numero di abitanti a stento rasenta l’affollamento di una decina di grandi condomìni napoletani messi insieme! E, invece, con mia grande sorpresa, in una località ad una manciata di chilometri da qui, Lioni, esiste la struttura dedicata al fitness e al benessere più incredibile che si possa immaginare. Per la prima volta nella mia vita di sportiva non professionista, avevo l’opportunità di frequentare una palestra pensata sin dalle origini come tale e non come qualcosa destinato ad un utilizzo del tutto diverso. La struttura, a quattro livelli e di modernissima concezione, è stata, infatti, progettata appositamente per accogliere un centro benessere. Pertanto, il livello inferiore è destinato alla sala attrezzi, allestita con macchinari di ultimissima generazione, il successivo ospita la reception, il bar e un ambiente ampio ed arioso concepito per i molteplici corsi e discipline che la palestra prevede, quindi, a salire, si incontra il salone di bellezza e, infine, l’ultimo livello accoglie il centro estetico, dove è possibile usufruire di qualunque tipo di trattamento, ma, in particolare, di uno strepitoso bagno turco, che, abbinato alla cosiddetta doccia emozionale, ossia un ciclo di tre docce fredde, ciascuna caratterizzata da getti d’acqua e profumazioni diverse, potrebbe resuscitare anche un morto!
Ma, sopra ogni cosa, ciò che ha conquistato un animo sensibile al bello come il fragranze di ciascun ambiente, il gusto lineare ed elegante degli arredi, la pulizia che rasenta la perfezione. Insomma, una favola! In suo onore ho addirittura rivisitato un famoso proverbio, che ora recita così: L’erba del vicino non sempre è più verde… Se capitate da queste parti, andate a dare un’occhiata e credo che non potrete smentirmi. Il nome? Anche quello è tutto un programma: Explora!


mercoledì 4 maggio 2011

Casa, dolce casa!

Alla candelora dall'inverno semo fora
ovvero
Non esistono più le mezze stagioni

Un tempo i detti popolari relativi ai cicli metereologici e a quelli agresti e vegetativi coincidevano, solitamente, con la realtà, poiché l’osservazione attenta dei fenomeni naturali, ripetuta anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, confermava una certa regolarità e periodicità.
Oggi, viceversa, tutto sembra essere diventato casuale, o, meglio, caotico. Il mondo gira senza una finalità precisa da perseguire, un disegno da realizzare. I singoli vagano nelle loro vite, trascinandosi in ruoli che non sentono propri e narcotizzando il loro malessere con surrogati altamente improbabili della felicità, proposti dalla trasmissione-spazzatura di turno.
Ebbene, anche il tempo meteorologico si è stancato di essere l’unico con un programma ben preciso nella testa: ha deciso di buttare tutto all’aria e di vivere, al pari degli altri, nel caos e nel precario.
E allora? Allora, addio alla primavera con tutti i crismi! Il tempo ci lusinga per uno o due giorni, facendoci credere che essa sia davvero alle porte, seduce le piante in fiore, alletta le nidiate affollate di uccellini affamati, dopodiché, zacchete! ci umilia con un’altra frustata di freddo e pioggia.
E allora? Allora, niente più Candelora -la festa che cade il 2 febbraio e in cui, secondo la tradizione cristiana, si benedicono le candele come simbolo della luce di Cristo per illuminare i popoli- a segnare il passaggio tra l’inverno, inteso come buio e morte, e la primavera, intesa come luce e risveglio.
E allora? Allora, meglio rassegnarci al moderno e malinconico adagio: Non esistono più le mezze stagioni!
E adesso è il momento di puntare nuovamente i riflettori sulle avventure della bancaria per caso!
Ritrovato l’equilibrio nella gestione quotidiana dei bimbi, grazie all’arrivo provvidenziale di Tata Iolanda, si riproponeva più viva che mai l’esigenza di trasferirci in un’abitazione adatta ai nostri bisogni. Ovviamente, come sempre, la buona sorte non tardò a bussare alla mia porta, poiché esattamente a due metri dalla dimora dei nonni materni, poi divenuta di mia madre e dove eravamo provvisoriamente alloggiati, c’era una casa in vendita che sembrava fatta apposta per noi. La costruzione era ancora allo stato grezzo, nel senso che era dotata unicamente della struttura in cemento armato e del tetto. Occorreva, dunque, completarla quasi interamente, ma, tutto sommato, ciò era un vantaggio, visto che avremmo potuto plasmarla secondo le nostre reali esigenze. Occorse circa un anno per completare i lavori, ma, alla fine, il 26 agosto del 2008, giorno dell’onomastico di mio marito, ci trasferimmo nella nuova casa. Era così bello vedere i bambini scorrazzare da un piano all’altro, ebbri di euforia per tutto lo spazio che d’improvviso avevano a disposizione. Diego, intanto, che appena camminava, li guardava divertito, aggrappandosi al primo appiglio a portata di mano. Credo proprio che io e Alessandro abbiamo fatto un bellissimo regalo ai nostri figli, poiché, se provo a calarmi nelle loro percezioni, verosimilmente questa nostra dimora, così particolare per la sua pianta asimmetrica, i suoi angoli nascosti, la sua imprevedibile articolazione, deve apparire loro come una sorta di nave dei pirati o di castello incantato, in cui improvvisare mille avventure.
La casa, come ho più volte ribadito, non è soltanto il luogo fisico che ci accoglie giorno dopo giorno, offrendoci riparo e ristoro. E’ questo, ma anche molto di più di questo. E’ lo scrigno segreto dell’energia, della vitalità e dell’empatia che tiene insieme la famiglia, è una sorta di tempio in cui si celano e si proteggono con amore e premura gli equilibri domestici, è il luogo dove la casalinga prepara il quotidiano desinare, in un atto che va al di là del semplice sostentamento alimentare, poiché quell’atto racchiude un mondo di significati ben più profondi, che fanno di lei il vero fulcro della casa, la virtù fatta persona che tutti i giorni dispensa la vita ai propri cari.
E allora, mi chiedo come mai tutti questi tesori, che dovremmo custodire gelosamente ed alimentare quotidianamente, vengano, invece, via via privati del loro intrinseco valore, al punto che, ormai, le nostre case sono ridotte ad alberghi di terza categoria!


martedì 3 maggio 2011

Il Cuore di Napoli



Pe' 'nu monaco nun se perde 'o cunviento
Per un monaco non si perde il convento

Vorrei tanto, lo desidererei con tutta me stessa, che questo proverbio divenisse il Vangelo per i futuri amministratori della mia città, Napoli. Cosa intendo dire? Proverò a spiegarvelo alla mia maniera.
Se vi chiedo con cosa identificate Napoli, sono sicura che il 99% di voi mi risponderà camorra e munnezza. Forse l’1% azzarderà pizza e mandolino. Dunque, a queste icone del degrado e dell’invivibilità è stata ridotta la città più bella del mondo! Ma, accantoniamo per un attimo il suo impareggiabile fascino, che pure, fin da tempi immemorabili, ha incantato qualunque viaggiatore. Vorrei, piuttosto, soffermarmi sull’immane patrimonio culturale di cui essa è stata da sempre detentrice e generosa dispensatrice.
Forse non tutti sanno che il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità d’Italia era (e ciò è storicamente documentato) uno degli Stati più evoluti d'Europa, non soltanto in termini di ricchezza pro-capite (i 2/3 della ricchezza dell'intera penisola appartenevano al Regno delle due Sicilie), quanto, soprattutto, in termini di ricchezza sociale, culturale e scientifica.
Solo per citare alcuni primati, ivi veniva applicato il carico erariale più basso d'Europa, si registrava la più alta percentuale in Italia di medici per numero di abitanti, venne fondata la prima facoltà di economia nel mondo, venne costruita la prima ferrovia (la celeberrima tratta Napoli-Portici), venne allestita la prima flotta mercantile d'Europa. E cosa dire della Real Fabbrica della seta creata nel piccolo Borgo di San Leucio, a pochi chilometri dalla Reggia di Caserta, per volere di re Ferdinando IV? L’illuminato sovrano nel 1778 diede vita ad una città ideale, Ferdinandopoli, costruita intorno ad una reggia destinata a filanda, dove aveva luogo l’intero ciclo di produzione della seta, a partire dalla coltura dei bachi. Per la prima volta, un re sceglieva di condividere i propri spazi con gli ambienti produttivi e con le abitazioni dei tessitori, che vennero costruite tutte uguali. Ma la vera innovazione consistette nella promulgazione del Codice delle Leggi del 1789, in base al quale, tra l’altro, uomini e donne che lavoravano nelle seterie erano considerati uguali, il salario era proporzionato al merito, parte dei guadagni venivano versati in una Cassa di Carità in favore degli invalidi e dei malati. Pensate che le seterie di San Leucio ancora oggi sono attive, tanto da fornire le sete per le bandiere della Casa Bianca e di Buckingham Palace!
Per non parlare della portata innovativa e dell’efficienza di quelli che oggi definiamo servizi socio-sanitari! Già a quei tempi, era prevista l’assegnazione di case popolari, la sanità era gratuita, così come l’istruzione (Ferdinando introdusse la prima scuola obbligatoria gratuita d'Italia!). Dal punto di vista culturale, Napoli era prima in Italia per numero di teatri e di conservatori musicali, per numero di tipografie e di pubblicazioni di giornali e riviste. E l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine, come eloquentemente mostra il video che ho inserito di seguito.
E cosa dire dell’immane patrimonio culturale costituito dalle canzoni classiche napoletane o dal teatro del grande Eduardo, per accennare solo ad alcuni degli esempi più recenti?
Ebbene, dopo questa lista interminabile, che forse vi avrà anche tediato, mi chiedo come un intero convento sia andato perduto a causa di un unico monaco, ossia della dissolutezza, del ‘pressapochismo’, della furbizia, dell’indolenza, dell’incoscienza, della miopia di pochi che hanno permesso e continuano a permettere che la mia bella città venga ogni giorno stuprata e infangata. Non voglio cadere nei luoghi comuni, nel vittimismo o nello squallido campanilismo. Rifuggo con ripugnanza da simili atteggiamenti, che a nulla conducono se non ad acuire situazioni croniche già esistenti.
Credo, piuttosto, da inguaribile ottimista, che personalità come quelle del re Carlo di Borbone, che fu in grado di risollevare Napoli dalla corruzione e dalla miseria ed avviare un periodo di sviluppo e crescita memorabili, non siano figure in estinzione. Credo che l’impresa sia tutt’altro che semplice, ma mi piace pensare che proprio le imprese più ardue siano quelle più mirabili. Credo che, nonostante tutta la melma che quotidianamente viene riversata su di loro, i cittadini napoletani serbino ancora vivo il loro orgoglio. Credo che  tanto ci sia da fare, ma che nulla è perso finché c’è un cuore che continua a battere. E, da vera napoletana, vi garantisco che il Cuore di Napoli c’è e difficilmente ci sarà qualcuno in grado di soffocarlo!

Breve storia del Regno delle Due Sicilie

lunedì 2 maggio 2011

Tata Iolanda

A buon consiglio non si trova prezzo

Io modificherei leggermente il proverbio di apertura con una piccola aggiunta: A buon consiglio, se richiesto, non si trova prezzo! E sì, perché, a ben vedere, oggi non solo è difficile trovare un consigliere valido, ma addirittura si verifica il fenomeno opposto, ossia che la gente, anche quando non richiesto, dispensa consigli dall’alto della propria posizione, senza essere disposta in prima persona ad ascoltarne uno, ed uno solo: Chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni! Il problema dei tempi moderni è la democrazia e, in particolare, la libertà di pensiero, sancita dall’articolo 21 della nostra Costituzione e manifestabile tramite la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. Mi giudicate forse  reazionaria? A prima vista potrei apparire tale, ma, di fondo, anche stavolta sono una rivoluzionaria allo stato puro. Ciò che condanno e che proprio non tollero non è la libertà di pensiero (e ci mancherebbe altro!), bensì il pensiero in libertà! La gente, spesso e volentieri, abusa di questo meraviglioso strumento, utilizzandolo, in abbinamento alla parola, senza alcuna discrezione o tatto. In altre parole, la manifestazione di ciò che si pensa diventa l’esternazione dell’invadenza e della maleducazione altrui, fenomeno, purtroppo, sempre più diffuso in una società, come la nostra, fondata sul pettegolezzo e sull’apparire a tutti i costi.
In alternativa a queste gloriose teste ‘pensanti’ e ‘parlanti’, che immancabilmente rallegrano le nostre giornate, vi sembrerebbe tanto assurdo pretendere da loro che sentenzino sulle questioni che ci riguardano solo, e soltanto, quando richiesto?
E adesso a noi!
L’arrivo della nuova tata fu come la manna dal cielo. Iolanda -questo il suo nome- in virtù della sua dolcezza, della sua pazienza, della sua riservatezza, della sua naturale inclinazione verso i bambini, si inserì immediatamente nel contesto familiare, divenendone un pilastro fondamentale.
I piccoli si affezionarono a lei istantaneamente, grazie al suo modo di fare, indulgente e determinato al tempo stesso. Ciò che mi sorprese e che continua ogni volta a stupirmi, è la sua capacità, assolutamente innata, di lavorare pazientemente con la volontà dei bambini, accontentandoli, ma, contemporaneamente, portandoli a fare esattamente ciò che lei desidera. Questa sua capacità, di cui, forse, ella stessa è inconsapevole, rappresenta un dono grandissimo, in quanto consente ai bimbi di sentirsi liberi nelle loro decisioni e scelte, pur continuando a muoversi, in realtà, in un ambiente protetto.
Ormai, Iolanda è con noi da quasi quattro anni. L’equilibrio e l’affidabilità che ella ha dimostrato giorno dopo giorno è sicuramente anche un riflesso dell’armonia che regna a casa sua. In tutto questo tempo, abbiamo avuto modo di conoscerci a fondo, tanto che posso affermare senza tema di smentita che la sua famiglia è diventata un po’ anche la nostra!
Che dire ancora di lei? Tanto per rimanere in tema di proverbi, un famoso motto recita che Nessuno è perfetto… io, però, aggiungerei con un’unica eccezione: Tata Iolanda