lunedì 31 gennaio 2011

A Maria Rosaria

A caval donato non si guarda in bocca!

E’ uno dei proverbi cui spesso ricorro nel momento in cui cerco di far capire ai miei figli quanto tutto ciò che ci arriva in dono sia qualcosa di speciale e di irripetibile, di cui dobbiamo essere grati a prescindere se il dono sia o meno di nostro gradimento. I bambini di oggi sono abituati a ricevere troppo facilmente, con la naturale conseguenza di sminuire l’intrinseco valore del gesto del donare, valore, che, come non vi sarà difficile immaginare, va ben oltre il semplice passaggio di un oggetto da una mano all’altra. In quell’atto si racchiude tutta la magia che ne accompagna le varie fasi: l’individuazione sapiente del regalo, la sua ricerca, volta a scovare esattamente quello che la nostra mente e il nostro cuore hanno concepito, la sua scelta, che ci fa orientare verso l’oggetto per cui proviamo maggiore affinità, e, infine, il passaggio vero e proprio dalle nostre mani a quelle del destinatario, il momento, ovviamente, più emozionante, in quanto sperimentiamo in maniera tangibile la nostra capacità di procurare felicità agli altri. Ne consegue che, se il destinatario non apprezza il nostro dono, la magica costruzione concepita dalla nostra mente ci crolla addosso come un macigno e ci fa sentire fallibili proprio con le persone che ci stanno più a cuore. Pertanto, quando i vostri figli, pieni di orgoglio, vi portano in regalo un disegno che definire picassiano è un complimento, mi raccomando, la cosa migliore che possiate fare sono salti di gioia fino al soffitto!
E adesso, ritorniamo a noi… Siete curiosi o no di sapere chi è l’angelo che abbassava il sipario sul mio ultimo post? Ebbene, un po’ di pazienza ed anche questo tassello troverà la sua collocazione.
Per accedere alla frequenza della Scuola di Specializzazione per Funzionari e Dirigenti Pubblici (questa la sua denominazione per esteso), era obbligatorio superare un esame di ammissione, consistente in una prova scritta ed avente ad oggetto nozioni  per lo più di diritto pubblico.
La prova venne fissata presso un’aula della Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie. Non rammento esattamente la data, ma doveva essere il principio di ottobre del 1992. Eravamo una ventina a concorrere e ricordo che i banchi erano stati disposti a formare un quadrilatero. Su uno dei lati, proprio quello che si parava di fronte aprendo la porta dell’aula, era seduto il direttore della Scuola di Specializzazione, nonché professore ordinario di Diritto Pubblico presso la stessa Facoltà. Alle sue terga, con una mano poggiata sulla spalliera della poltrona in pelle in cui era accomodato il professore, si affacciava per metà la figura di una donna minuta, sulla cinquantina,  dagli occhi vispi e dal sorriso sincero. Non sapevo quale fosse il suo ruolo in quel contesto,  eppure, dal momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, si sprigionò una strana alchimia. Il caso volle che, durante la prova, fossi seduta proprio di fronte a quella magnetica creatura. Vi sembrerà incredibile, ma per tutto il tempo, avvertii la chiarissima percezione che lei stesse lì per un motivo ben preciso, ossia per accompagnarmi in quella prova e vegliare su di me. Era come se quella mano, poggiata sulla spalliera ad un paio di metri di distanza, fosse in realtà sulla mia spalla e mi trasferisse calore e serenità. Questa sensazione era così forte e penetrante che non potevo esimermi, di tanto in tanto, dal sollevare gli occhi dal foglio per cercare i suoi.  E, immancabilmente, lei era a lì, a guardarmi dolcemente. Mi sembrava (ma forse questa era solo una mia percezione) quasi sul punto di piangere, tale era la gioia e l’energia che si sprigionava ogni volta che le nostre anime venivano in contatto.
Superai la prova e, solo con l’inizio dei corsi, nel gennaio del 1993, scoprii l’identità di quell’angelo. Ricopriva la funzione di segretaria della Scuola ed indovinate un po’ di dov’era? di Napoli, un’altra magica coincidenza! Il suo nome aveva un suono antico e rassicurante, proprio quello che istintivamente le avrei attribuito pur non conoscendola: Maria Rosaria.
Al nostro primo incontro presso Villa Chigi Farnese, le poche parole che ci scambiammo confermarono in pieno la reciproca affinità e suggellarono l’inizio di un’amicizia e di una complicità senza tempo.
Durante l’intera parentesi senese, questa donna è stata presente nella mia vita ogni giorno, sostenendomi nei momenti tristi (alludo alla morte di mio padre) e rallegrandomi in quelli più lieti. Trascorrevamo ore intere a raccontarci di tutto e il suo linguaggio, generalmente così compìto, in mia presenza riacquistava tutto il brio e l’incisività del dialetto napoletano.
Devo tanto a questa piccola grande donna, piccola nelle fattezze, ma grande nella bontà d’animo e nella generosità.
Le devo una valanga di risate, tanti insegnamenti di saggezza antica, molteplici esempi di magistrale conduzione della casa, ma soprattutto le devo la rivelazione di un inestimabile segreto: una superba ricetta del babà che farebbe invidia alla migliore delle pasticcerie napoletane e che io riproduco ogni volta con assoluta fedeltà.
Se non mi credete, appena mi cimenterò nuovamente nell’impresa, aggiornerò il blog con un'eloquente foto, ma, per quanto riguarda il sapore, dovrete fidarvi di me o, meglio ancora, affidarvi al vostro sesto senso.
Nel frattempo, vi saluto caramente e vi aspetto numerosi al prossimo incontro!

sabato 29 gennaio 2011

La luna nel pozzo

Dicette ‘o pappice ‘nfaccia  a noce: anoce: o pappice damme tiempo, ca te spertoso
(Disse il tarlo alla noce: dammi tempo che ti buco)

Il proverbio di oggi è un invito alla pazienza e alla perseveranza, valori che un po’ tutti abbiamo immeritatamente accantonato, frastornati e strattonati come siamo dalla frenesia dei ritmi quotidiani. Ma, se concediamo solo qualche minuto ad una intima riflessione, sarà facile comprendere come pazienza e perseveranza sono il naturale nutrimento di una maggiore fiducia in noi stessi, altro valore che i modelli imposti dalla moderna società tendono in maniera subdola, ma scientificamente calcolata, a spicconare progressivamente. Si dice che la pazienza è la virtù dei forti e, se ci pensate bene, persevera colui che è fiducioso, se non sicuro, di raggiungere la meta che si è prefissato. Dunque, allenate la vostra mente e il vostro spirito nella palestra di queste antiche virtù e sarete sorpresi dal constatare come anche poca pratica sia in grado di dare frutti inattesi e corroboranti.
E adesso ritorniamo a quello che tutti aspettate (o sbaglio?): l’atto VI della “casalinga rivoluzionaria”.
Anche questo post sarà dedicato al mio soggiorno senese, ma con un piccolo passo in avanti. Nel 1992, dopo sei anni di onorata frequenza universitaria, conseguii a pieni voti la laurea in Scienze Economiche e Bancarie, discutendo una tesi in Economia Ambientale. La sua preparazione ed elaborazione furono un parto indolore, anzi, direi, un piacevole impegno quotidiano che mi portava in giro tra biblioteche e centri di ricerca specializzati in materia. Provvidi personalmente alla sua battitura e stampa, servendomi di una stampante ad aghi di primissima generazione (oggi antidiluviana), di cui ricordo ancora il metallico rumore a scatti…  
Ma poiché la laurea significava la fine della mia vacanza in Toscana, pensai bene di prolungare gli studi, iscrivendomi ad un corso di specializzazione, della durata di due anni: altri  settecentoventi giorni di respiro, durante i quali avrei dovuto inventarmi qualcosa di nuovo per allungare il brodo!
Da buona Gemelli refrattaria alla monotonia, scelsi una specializzazione che nulla aveva a che fare con la materia della mia tesi di laurea. Si trattava di una specializzazione in Amministrazione Pubblica, dunque di taglio essenzialmente giuridico che, capirete bene, si incastrava ben poco con la mia formazione prettamente economica. Il motivo di questa scelta vi sembrerà pazzesco, ma, per un animo sensibile al bello come il mio, fu determinante la sede dove si sarebbero svolte le lezioni, due volte alla settimana, per un biennio. Si trattava di una villa rinascimentale, Villa Chigi Farnese, immersa nel verde della campagna senese, poco distante dalla città e a cui si accedeva tramite una strada a sterro di un paio di chilometri.
Lo spettacolo che si aprì dinanzi ai miei occhi, quando mi recai sul posto per un sopralluogo, fu indescrivibile: rimasi letteralmente rapita dall’aura che circondava non solo la splendida villa, ma l’intero complesso cinquecentesco. Era come se il tempo si fosse cristallizzato e tutto fosse immerso in un’immobilità surreale. Le armoniose linee rinascimentali dell’edificio avrebbero incantato anche il più distratto dei visitatori, alla stregua di un’ammaliante sirena, fluttuante dinanzi ad ignari navigatori.
Il paesaggio circostante emanava esattamente la stessa energia: la villa era circondata da querce, tigli e castagni secolari che in autunno emanavo un inebriante umore di sottobosco e in primavera esplodevano in una sinfonia di vivido fogliame e odorosa fioritura. Non era raro scoprire di giorno i segni del passaggio notturno di qualche abitante del bosco, come, ad esempio, le impronte lasciate da una famiglia di cinghiali o i lunghi aghi di un istrice che, nel mio immaginario, doveva averli persi lisciandoseli al chiaro di luna.
Ma l’elemento più affascinante di questo incredibile scenario era senza dubbio il pozzo in pietra che se ne stava al centro del cortile, a rimirare da secoli l’antica dimora. Mi piaceva pensare che quel pozzo fosse un guardiano imperituro, nel cui fondo, sotto il riflesso della luna, si celava un accesso segreto alle fondamenta della villa, dove essa nascondeva a sguardi  profani il mistero della sua eternità.
Alla luce di tutto ciò, pensate, dunque, che fosse davvero importante cosa andassi a studiare in quel posto?
Peraltro, ancora non sapevo che di lì a poco, proprio in quella magica villa, avrei incontrato un angelo che mi sarebbe stato accanto durante tutta la mia permanenza a Siena ed anche oltre.
Ma di questo vi parlerò nel prossimo post!

venerdì 28 gennaio 2011

Caro Babbo Diego...

A casa dei suonatori non si portano serenate

Mio marito Alessandro ripete spesso questo proverbio quando io voglio aggirare l'ostacolo e lui mi coglie in fallo. Da buona Gemelli, la rapidità di pensiero e l'acutezza di spirito mi sono, nell’impresa, compagne fedeli ed inseparabili, ma, dopo tanti anni (eravamo compagni al liceo), il mio caro Capricorno ascendente Vergine mi conosce fin troppo bene per essere gabbato (per i profani, le caratteristiche distintive del Capricorno sono la riflessione, la diplomazia, la riservatezza, l’affidabilità, la serietà; la Vergine, invece, è caratterizzata da una personalità intellettuale e nervosa, incline alla meditazione e all’osservazione fin troppo analitica, cosa che rende i nati nel segno critici anche per i dettagli più minuziosi. A voi le conclusioni circa il risultato di questo mix tutt’altro che facilmente digeribile!). Ormai sono stata diligentemente schedata in uno dei file dell’archivio mentale di Alessandro, a cui egli ogni tanto apporta qualche aggiornamento. Tuttavia, se ricordate, mi rimane sempre l'ascendente Gemelli e, quindi, mi riservo ancora qualche cartuccia segreta da sparare al momento opportuno (voi, però, non diteglielo, mi raccomando...)!
Ma, bando alle ciance e ritorniamo a noi... Nel post di ieri il sipario era calato sul delizioso appartamentino che sarebbe stato il mio rifugio durante l'intera parentesi toscana. Parlo di rifugio in quanto, benché il mio spirito libero mi portasse spesso ad allontanarmi da Siena, era sempre lì che desideravo tornare, in quella casa: i miei viaggi e i miei spostamenti, via via più frequenti dopo la laurea, mi svelavano ogni volta nuove destinazioni, dove mi impregnavo di colori, sapori, suoni fino ad allora sconosciuti e che davano nuovo nutrimento alla mia anima assetata di sapere e scoprire, scoprire e sapere. Più che un viaggio verso una località fisicamente identificata da una latitudine e una longitudine ben precise, si trattava sempre ed innanzitutto di un viaggio alla scoperta di me stessa, dei miei limiti e delle mie paure, ma anche della mia intraprendenza e della mia istanza di libertà. Era come guardarsi allo specchio senza veli e chiedersi “E adesso, sei davvero pronta ad andare oltre?”. E’ questo il motivo per cui molti dei miei viaggi, sia verso destinazioni vicine che lontane, li ho intrapresi in totale solitudine, accompagnata solo dalla mia macchina fotografica, una Olympus OM 20 regalatami da mio padre e che ora apparirebbe come la trisavola delle moderne macchine digitali. La cosa straordinaria è che non mi sentivo mai sola, poiché sapevo rendere familiari in qualche dettaglio più o meno significativo tutti i luoghi che visitavo, in modo da sentirmi sempre a mio agio. Ma la realtà era che spesso ripetevo fra me e me “Male che vada, hai sempre te stessa!” e, dunque, riuscivo a bastarmi anche lontana dalla mia casa e dalla mia famiglia, anche in un luogo dove la gente non parlava la mia stessa lingua e mi era totalmente estranea.
Tuttavia, anche un’amante dei viaggi così singolare prima o poi palesa il bisogno di un dato stabile, e, per me, come già detto, il punto di riferimento si incarnava nella mia casa, dove era dolce ritornare, riabbracciata dal tepore degli oggetti a me così cari.
L’arredamento era stato scelto dai miei genitori: in parte si trattava di mobili acquistati sul posto, in parte di mobilia soverchia proveniente da Napoli. I miei ci tenevano che non mancasse nulla e quindi avevano dotato la piccola dimora di tutto ciò che potesse necessitarmi. Via via provvedevano ad acquistare le altre piccole suppellettili che inizialmente erano sfuggite al loro meticoloso equipaggiamento. Generalmente, si dedicavano a quest’occupazione il fine settimana, quando, a settimane alterne, venivano a trovarmi a Siena. Mio padre, che purtroppo ho perso nel 1994, era un tipo formidabile, spassosissimo, dal cuore generoso e dagli occhi blu mare. Era un napoletano verace e non sapeva, né voleva, contenere questa sua peculiarità. Vi racconto un aneddoto che riassume magistralmente lo spirito sagace e dissacratorio di quest’uomo meraviglioso: per l’appunto durante una delle perlustrazioni senesi dei miei genitori, alla ricerca di qualche oggetto casalingo mancante all’appello, i due entrarono in un negozio in pieno centro per acquistare un mestolo. Voi sapete cos’è un mestolo, vero? Ma quando mia madre ne chiese uno al commerciante, questi, con chiaro accento senese, affermò reiteratamente di non capire di cosa si trattasse, con l'intento evidente di mettere in imbarazzo la povera donna. Mio padre non si fece passare la mosca sotto al naso, come suol dirsi, e, con chiaro accento napoletano, tuonò: “Ha parlato ‘o frate ‘e Dante Alighieri! Uè, fa’ ampressa, damme nu coppino!” (traduco: “Ha parlato il fratello di Dante Alighieri! Dai, fai presto, dammi un mestolo!”), al che il tipo, paonazzo in viso, si diresse trafelato a fornire quanto richiesto e non si permise più di proferire verbo.
Per non parlare di quella volta in cui attendevamo il tecnico della caldaia per una messa a punto, ovviamente anche lui senese doc. Se ricordate, nel post di ieri avevo accennato ad una serie interminabile di gradini sconnessi che conducevano fino al mio appartamento. Ebbene, il tecnico era un omone simile nelle fattezze al Brutus di Braccio di Ferro: avete presente? Testa piccola, tonda, pelata e luccicante come un uovo, incassata in un ammasso informe di grasso che tentava, ansimando, di scalare i gradini per avere infine ragione della dolce dimora. Quando il tipo, tutto sudato e rosso in viso, fece la sua comparsa dall’ultima rampa di scale, più morto che vivo nel suo tutone blu elettrico, come pensate lo accolse mio padre? Con un sorrido apparentemente ingenuo, in puro slang napoletano, pronunciò queste precise parole: “Uè, ma a Voi vi piacciono ‘e maccaruni, eh?” (traduco “A Lei piace la pastasciutta, vero?”), con chiaro riferimento alla sua mole. Ovviamente, il poverino, già tramortito dall’arrampicata tutt’altro che agevole, gli rivolse uno sguardo imbambolato e supplichevole al tempo stesso, come a dire “Cosa vuole costui da me? Non vede che ora avrei bisogno soltanto di una massiccia dose di ossigeno?” Tutto ciò sotto gli occhi a metà tra l’incredulo e il divertito di mia madre, di mia sorella e della sottoscritta che dovette fare uno sforzo non indifferente per trattenere una fragorosa risata.
Potrei raccontare tanti altri aneddoti del caro Babbo Diego, ma abbiamo ancora molta strada da percorrere insieme e le occasioni non mancheranno.
Vorrei solo precisare che in questo suo modo di fare non c’era mai cattiveria gratuita o intenzione di offendere, ma solo una vena bonariamente canzonatoria, volta, per lo più, a creare un’affinità con le persone che avevano la fortuna di incontrarlo. Era semplicemente il suo modo di essere Diego Planeta, unico al mondo nel suo genere!
Così come vorrei precisare che, a prescindere dagli episodi narrati, ho una grandissima stima dei senesi. Dovunque sono presenti le due facce della medaglia, il buono e il cattivo, il bianco e il nero, per cui, allo stesso modo, potrei raccontare tanti altri aneddoti in cui il popolo senese ha dimostrato tutta la sua generosità ed ospitalità. E con questo, passo e chiudo. Alla prossima!



giovedì 27 gennaio 2011

Il tiepido rifugio dell'anima

A llietto stritto, cuccate 'mmiezo...
(Se il letto è stretto, coricati al centro -della serie:  "L'arte di arrangiarsi a spese altrui"-)

Certo, la traduzione di un proverbio napoletano, così come il tentativo di una sua spiegazione, non potranno mai avere la stessa pregnanza dell'originale. Tuttavia, non potevo ignorare i miei amici non partenopei, che avrebbero avuto verosimilmente delle difficoltà di interpretazione, motivo per cui mi sono indegnamente cimentata come traduttrice.
Chiedo, pertanto, venia ai lettori napoletani ed invito gli altri a trasformare questi brevi incontri quotidiani nel pretesto per imparare la lingua di Pulcinella (o meglio, Pulecenella). Non è impresa facile, indubbiamente, ma sono certa che essa saprà sorprendervi, saprà rapirvi con la ricchezza delle sue sfumature e con la sottile ironia del suo dire, ironia che spesso degrada lentamente verso una velata malinconia...
Ciò detto, riprendiamo il bandolo della matassa. Vi avevo lasciati a Siena, Toscana, Italia.
L'innamoramento con Siena è stato così coinvolgente che ho percepito l'intero periodo della permanenza in Toscana come una vacanza, anziché come il soggiorno precario di una studentessa fuori sede. Il coinvolgimento è stato tale che dopo la laurea in Scienze Economiche e Bancarie, conseguita nel settembre del 1992, ho potratto la mia vacanza a Siena per altri sei anni, dei quali, però, vi racconterò in seguito.
Per il momento, soffermiamoci sul periodo universitario. All'epoca ero ancora molto giovane e senza alcuna esperienza di vita vissuta al di fuori delle rassicuranti mura domestiche. Mi affacciavo a questa nuova dimensione della mia esistenza con la stessa esitazione, ma, nel contempo, con la stessa gioiosa incoscienza con cui un bambino muove i suoi primi passi. Ero affamata di conoscere, vedere, scoprire, ammirare tutto ciò che mi circondava, ma la mia imperizia spesso si frapponeva in questo tumultuoso moto dell'animo e lo frenava come a dirgli "Ehi, basta adesso! Stai correndo un po' troppo..." E allora quella parte di me, che per tanti anni avevo tenuto sopita e che adesso finalmente cominciava ad affacciarsi alla luce, si ritirava nella penombra, in attesa di prendere sufficiente coraggio e di rituffarsi nella travolgente corrente della vita, con rinnovata vigorìa e un pizzico di fiducia in più.
I giorni passavano veloci, presa com'ero dalle mie nuove occupazioni. Lo studio assorbiva buona parte della mia giornata, ma non mancavano mai le pause dedicate alle chiacchiere e alle confidenze con le mie amiche e compagne di avventura. Così come, non mancava mai il tempo, generalmente prima di dormire,  dedicato all'introspezione, momento prezioso che aspettavo con impazienza e che mi preservavo come il più raro dei doni. Era il momento in cui la rivoluzionaria che era stata sempre in me si alimentava di nuova linfa, rinvigorita dalla fiducia in se stessa e dall'energia che il vissuto di quella giornata le avevano infuso.
L'intima complicità con Siena venne coronata dalla decisione di mio padre di acquistare un piccolo appartamento in centro, cosicché io potessi sentirmi davvero a casa. E fu proprio così! 
Mio padre mi diede piena fiducia, delegandomi la ricerca dell'immobile, e si raccomandò di ponderare bene la scelta, optando per ciò che mi fosse risultato davvero congeniale. Tramite un'agenzia immobiliare, ne vidi parecchi, ma come sempre mi accade, la scelta ricadde su ciò che vibrava delle mie stesse emozioni. Forse vi sembrerà pazzesco, ma vi assicuro che anche le cose sono capaci di parlare ai nostri cuori, a tal punto da poterci emozionare o estasiare per il solo fatto di essere, pur nella loro apparente assenza di vita. E' esattamente ciò che accade a me quando, alla fine di una serie di gradini interminabili e sconnessi, all'interno di un edificio alquanto fatiscente e tutt'altro che ammaliante, mi si aprì alla vista la più graziosa delle dimore, composta da due stanze, un cucinotto, un bagnetto, un ripostiglio e, dulcis in fundo, un balconcino con vista mozzafiato sulla campagna senese. L'innamoramento era scattato ancora una volta e, nel giro di qualche settimana, l'appartamentino fu mio, o, meglio, cominciammo ad appartenerci a vicenda...
Da quel momento c'erano tutti i presupposti affinché il mio spirito controcorrente cominciasse a forgiarsi a suo piacimento: di giorno lo accoglieva il caldo abbraccio della città, a cui gridava il suo canto libero, e di notte, al sorgere della luna, lo ritemprava,  in un abbraccio altrettanto caldo, il tepore del suo rifugio sospeso sulla campagna argentata.

mercoledì 26 gennaio 2011

Siena, mon amour!

Chi ben comincia è alla metà dell'opera (speriamo...)

Mi rituffo nella rete mediatica apportando una piccola novità al mio blog: un proverbio di apertura che potrà essere in lingua italiana o in lingua napoletana (i non napoletani mi perdonino, ma il richiamo delle radici rimane sempre forte -e non solo per me, vero?-). I motivi di questa scelta sono sostanzialmente due: innanzitutto, mi ha fatto tanto ridere, nel momento in cui lo trascrivevo, il proverbio napoletano che ho inserito nel post di ieri e  quindi, ho pensato che potesse essere simpatico abbinarne uno a ciascuno dei nuovi post; in secondo luogo, e questo è il motivo più pregnante, ho irremovibilmente deciso di dimostrare a mio marito Alessandro che la più forte in materia sono io: nel lontano 2002, in una gara durata circa tre ore e fino alle due di notte, lo stracciai letteralmente con una raffica irrefrenabile di proverbi, anche se tuttora  mio marito si ostina a dire che il vincitore sia stato lui e che io abbia barato ripetendo più volte lo stesso proverbio. Staremo a vedere...
Ma ritorniamo a noi! Correva l'anno 1986 e Siena mi aspettava per accogliermi generosa nell'abbraccio caldo e dorato delle sue colline di fine estate. La mia eccitazione era alle stelle, ma, al tempo stesso, essendo molto legata alla mia famiglia, paventavo il momento del distacco da loro. La mia prima sistemazione, per volere di mio padre, fu presso un collegio femminile gestito dalle suore (non ne ricordo l'Ordine di appartenenza), dove rimasi fino alla primavera successiva e dove conobbi molte delle amiche della parentesi senese a cui sarei rimasta più legata.
Rammento che la prima notte fui travolta da un tumulto di sensazioni inattese e di pensieri agitati: ero sola, nel nulla del buio e del silenzio più profondi, eppure l'ebbrezza della libertà sopraffece la paura ancestrale della separazione e della solitudine.
Il mio stato d'animo andò progressivamente e rapidamente migliorando: tutto quello che mi circondava era proprio come me lo aspettavo ed anche meglio! Siena era un piccolo gioiello da scoprire e da rimirare in punta di piedi, e tutto questo mi scaldava il cuore, facendomi sentire un tassello unico di quel meraviglioso mosaico. Ero convinta che anche la città avesse un'anima e che questa vibrasse esattamente con le stesse frequenze della mia anima. Se ammiravo un albero secolare che da tempi immemorabili faceva compagnia ad una basilica o ad un convento, mi sentivo come la linfa di quell'albero; se in primavera mi sedevo ai tavolini di Piazza del Campo, sorseggiando un cappuccino e leggendo un buon libro, mi sentivo un tutt'uno con la brezza leggera che dispettosa  mi arruffava le pagine, con il  tiepido sole che mi intorpidiva i sensi e persino con il fresco metallo della sedia di fronte a me che accoglieva i miei piedi scalzi.
Insomma, la piccola rivoluzianaria aveva saputo attendere pazientemente e, alla fine, a distanza di quasi tre lustri, aveva cominciato ad assaporare la libertà!

martedì 25 gennaio 2011

L'inizio della metamorfosi

Dove eravamo rimasti? Ah, sì! All'adunata delle care lettrici rivoluzionarie (consapevoli e non) che vestono ancora i panni di "tranquille donnine con la cosiddetta testa sulle spalle"... tutto ciò a detta di coloro che si proclamano infallibili psicologi dell'altrui personalità, ma che non sanno, poveri ingenui, di avere a che fare in realtà con vere e proprie guerriere, pronte a tirare fuori unghie e denti per dire la loro, per affermare finalmente la loro vera identità. Sto esagerando? Forse sì, almeno per quanto riguarda la metafora a cui sono ricorsa, ma di fatto penso che a molte di voi cominci a solleticare l'idea di spiazzare gli infallibili psicologi e  di spicconare le loro incrollabili certezze sul vostro conto...
Detto ciò, ritorniamo alla rivoluzionaria in erba, alla bambina di quattro, massimo cinque anni, per quello che la memoria mi consente di mettere a fuoco, e che il  suo papà, Diego, era solito chiamare "semmenzella" (traduco per i non napoletani connessi: semmenzella = chiodino usato dai calzolai, da cui il famoso detto "Quanno nun site scarpare, pecché rumpite 'o cacchio a 'e semmenzelle?" - "Se non siete calzolai, perché andate a dare fastidio ai chiodini?"-, ma, nel mio caso, trattasi, ovviamente, di un vezzeggiativo con cui mio padre mi appellava e che sta a significare una cosa piccola). Per quanto fossi, per l'appunto, minuta, ero tuttavia, fin da allora, animata da una volontà ferrea che, non avendo sempre modo di manifestarsi, date le  (giuste) imposizioni e regole di Casa Planeta, rimaneva pazientemente in attesa, fiduciosa che il domani le avrebbe prima o poi arriso.
Con il passare degli anni, la piccola guerriera cresceva e reclamava le sue ragioni in maniera via via più impellente, ma, avendo a che fare con un padre napoletano di origini sicule (per maggiori dettagli, vi rimando al mio post di ieri), l'impresa era ovviamente irta di perigli e quanto mai delicata. Bisognava agire di astuzia. Occorreva trovare validi e fidi alleati. State forse pensando alla stessa persona a cui all'epoca pensai io? La soluzione dell'enigma è, direi, quasi scontata, e fu il cuore di mamma, Enza, a sostenere le mie ambizioni e le mie aspirazioni di giovane donna. Lavorammo il nemico ai fianchi, con un'opera di persuasione degna del miglior diplomatico che si possa immaginare, con una costanza e una pazienza paragonabili solo a quelle di un Certosino e, alla fine, anche il più ostinato e conservatore dei genitori (ti voglio bene, papà!) dovette capitolare.
All'età di diciannove anni partivo per Siena per frequentare la sola Facoltà universitaria all'epoca non presente a Napoli, Scienze Economiche e Bancarie, unico motivo per cui mio padre aveva acconsentito alla mia dipartita ed unico motivo per cui quella Facoltà era stata da me scelta. Il sogno di sempre, quello di volare libera, finalmente si  avverava, proprio nella città che sin da ragazzina, per non so quale motivo, avevo percepito come la più congeniale alle vibrazioni più recondite della mia anima: Siena, Siena, Siena!
In altre circostanze e in presenza di istanze diverse, avrei scelto la Facoltà di Lingue, che, come potete ben immaginare, da buona Gemelli ascendente Gemelli, mi sarebbe calzata a pennello, come un tailleur su misura confezionato dal migliore dei sarti della City... Ma il mio desiderio di cambiare finalmente pelle era troppo forte, incontenibile, e Napoli, la mia città, non era il luogo adatto alla metamorfosi...

lunedì 24 gennaio 2011

Il mio debutto on line!

Ebbene sì! Anche io alla fine ho deciso di tuffarmi nel flusso impetuoso della rete! Più che una vena di esibizionismo, a spingermi è stata la mia personale esigenza di trasferire e fissare sulla carta (o meglio, sullo schermo!) piccoli sprazzi della mia vita controcorrente, in modo da lasciarne traccia per le persone che mi conoscono e per quelle che vorranno conoscermi. 
Come sono diventata casalinga per scelta? Beh, la storia è lunga... siete disposti a leggerla? OK, allora procedo, ma premetto che questo è solo l'aperitivo. Per assaporare il dolce occorre preparare molto lentamente il palato, motivo per cui dovremo necessariamente diluire i nostri incontri in maniera sapiente.
Vengo alla luce quasi 44 anni fa a Napoli, in un mese che adoro e che, guarda caso, affianca anche la dolce housewife anni Venti nello sfondo del mio blog: il mese è maggio, il giorno 24, l'ora le 5 del mattino.
Dunque, nasce una Gemelli ascendente Gemelli, una vera macchina da guerra, per chi se ne intende, in fatto di comunicatività, vivacità di espressione, velocità ed agilità del pensiero, ma anche in fatto di volubilità, impulsività, irrequietezza. A tutto ciò si aggiungano i natali a Napoli con origini siciliane (il mio bisnonno Diego era un barone dedito al gioco e alle donne, costretto, per avverse fortune, a lasciare la Sicilia e a trasferirsi nella città partenopea) e il piatto è servito...
La mia infanzia e la mia adolescenza trascorrono in maniera relativamente tranquilla, circondata dall'affetto del mio papà Diego e della mia mamma Enza e in compagnia dell'allora inseparabile sorella maggiore (di due anni e mezzo) Daniela.
Tuttavia, nonostante la normalità dei primi anni della mia esistenza, ricordo in maniera vivida come sin da piccolissima mi appartassi nella stanza dei miei genitori per guardarmi allo specchio dell'armadio, chiedendo ad alta voce a me stessa perché non mi fosse consentito uscire da sola per farmi una passeggiata.
Perché vi racconto questo particolare? Per farvi capire come sin da bambina fossi una rivoluzionaria in erba, anche se mascheravo perfettamente questa mia indole sotto il coriaceo strato dell'educazione e del senso del rispetto impartitimi dai miei genitori.
A quei tempi ancora non sapevo che a distanza di qualche anno la rivoluzionaria sarebbe scesa in campo per reclamare le sue legittime pretese e che, contro tutti e tutto, le avrebbe ad ogni costo soddisfatte!
Pertanto vi dico: "Rivoluzionarie del XXI secolo, restate in campana! L'ora della rivalsa si avvicina anche per voi!"
Continuate a seguirmi e scoprirete come è facile sbarazzarsi dei vecchi panni e vestirne di nuovi!