E’ ghiuta a finì ‘a carta ‘e musica in mana ai cecati!
(E’ finita la carta da musica in mano ai ciechi! -della serie: ”Incompetenza al 100%"-)
Questo è uno dei proverbi preferiti da Babbo Diego, a cui egli si appellava soprattutto quando era alla guida nel traffico caotico di Napoli. Da buon napoletano scetato (ossia, sveglio, rapido), era assolutamente intollerante nei confronti dell’altrui imbranataggine, in particolare se palesata al volante di un’auto. Pertanto, quando qualcuno gli si parava davanti, rallentando la sua avanzata inarrestabile a dispetto di qualsiasi ostacolo, gli inveiva contro con espressioni a dir poco colorite, che erano motivo di grande ilarità per tutti i passeggeri del rocambolesco tragitto. Tuttavia, se avete imparato a conoscere un po’ mio padre, vi sarà chiaro che gli appunti rivolti agli altri automobilisti non erano mai originati da un temperamento iroso o megalomane, ma semplicemente gli piaceva recitare la parte del burbero simpaticamente presuntuoso, ritengo, allo scopo di divertire gli astanti.
Il suo bersaglio preferito era, in particolare, il guidatore con cappello, in quanto, da quel particolare, egli deduceva, devo dire con matematica precisione, che si dovesse trattare di una persona in età avanzata e, quindi, presumibilmente, dai riflessi sbiaditi. Il poverino veniva generalmente apostrofato pippa appilata, ossia una pipa otturata e, dunque, priva di qualsivoglia utilità, anche se la ciliegina sulla torta era costituita dal proverbio odierno, con cui mio padre concludeva la sua esibizione allorquando il malcapitato si ostinava ad ostruirgli la strada.
Peccato che nessuno possa più avere la possibilità di assistere ad un simile show! E fortunati coloro che, invece, vi hanno preso parte!
Ma ritorniamo a noi! Eravamo fermi alla partenza per la Spagna nel lontano ottobre del 1995. Nonostante fossi molto attratta dall’idea di dare una sferzata alla mia vita, ero, allo stesso tempo molto combattuta ed angosciata da mille dilemmi. Tuttavia, alla fine, presi il coraggio a due mani e decisi di partire. Come vi ho già accennato nel post di ieri, più che alla scoperta di nuove destinazioni ero alla ricerca dell’antica me stessa, sconfortata ed appannata dalla perdita di mio padre.
Partii in una fresca alba di inizio autunno, quando la città ancora dormiva. Nella mia mente è tuttora impressa con immutata intensità la penetrante sensazione provata nell’attraversare in totale solitudine Piazza del Campo. La meravigliosa conchiglia in cotto era immersa in un silenzio surreale, rotto all’improvviso soltanto dal volo rapido e simultaneo di un gruppo di piccioni, probabilmente infastiditi dall’inattesa ospite.
Guadagnai rapidamente la stazione dell’autobus diretto a Roma e da lì raggiunsi l’aeroporto di Fiumicino, dove mi attendeva il volo internazionale per Barcellona.
Dopo poche ora toccavo il suolo iberico. Ero sola, accompagnata unicamente dal mio zaino e dalla mia macchina fotografica. Il viaggio sarebbe durato dieci giorni e, dopo Barcellona, avrebbe toccato nell’ordine Teruel, Valencia, Granada e Cordova per approdare, infine a Siviglia, dove mi sarei imbarcata per il rientro in Italia.
La Spagna si rivelò unica nei suoi colori, nei suoi sapori e nel calore del suo idioma: proprio quello che occorreva per dare nuovo vigore al mio animo spento. Noleggiai una Opel Corsa blu metallizzato che mi fu accanto silenziosa e fedele per l’intero vagare in territorio straniero.
Dal tepore della Catalogna, passai al freddo dell’Aragona fino a raggiungere il caldo africano dell’Andalusia. I paesaggi che si aprivano alla mia vista erano sorprendenti, in quanto avvolti, soprattutto nelle province del Sud, da una luce la cui intensità mi era sino ad allora sconosciuta. Era come un caldo mantello che avviluppava con senso materno la mia anima, così provata e così stanca.
Trascorrevo spesso notti insonni, sobbalzando al minimo rumore proveniente dal corridoio dell’alberghetto che di volta in volta mi ospitava. Ma, per fortuna, alla notte seguiva sempre il giorno e, immancabilmente, ritrovavo quel magico abbraccio che mi rinfrancava il cuore.
Giunta a Siviglia, ultima tappa del mio peregrinare, cominciai ad accusare i colpi della stanchezza fisica. Spesso, mi fermavo a prendere fiato, assorbendo l’energia dell’onnipresente sole con ogni singolo poro della mia pelle. Ma, in compenso, percepivo che il peso che mi opprimeva da tanto, troppo tempo, si era finalmente alleviato.
Non potrete mai immaginare cosa ricucì del tutto lo strappo causato dalla morte di mio padre: un CD dei maggiori successi di Renato Carosone, così caro a Babbo Diego, scovato non so come in un megagalattico Virgin Store di Siviglia.
Mi piace credere che fosse stato mio padre a guidarmi nel rinvenimento di quell’ago nel pagliaio, ma, in ogni caso, quella straordinaria coincidenza rappresentava un chiaro segno: era davvero giunto il momento di ritornare a casa!
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