L’unione fa la forza
Nonostante esista questo famosissimo proverbio a rammentarcelo, troppo spesso dimentichiamo che la cooperazione porta sempre a risultati e a benefici diffusi maggiori di ciò che l’azione del singolo sarebbe in grado di produrre.
Avendo, nel mio piccolo, visitato varie nazioni in giro per il mondo, animata soprattutto dal desiderio di entrare in sintonia con l’anima dei luoghi, piuttosto che limitarmi ad osservarli da semplice turista, con rammarico ho più volte notato che altrove la gente collabora reciprocamente allo scopo di raggiungere un fine comune: un maggiore benessere di cui tutti possano godere! Tale fenomeno è evidente in particolare negli Stati Uniti, dove lo sterile campanilismo, tipicamente italiano, cede sagacemente il posto ad un diffuso spirito collaborativo. Ciò fa sì che il commerciante parli sempre bene del suo concorrente, che l’albergatore che non ha posto ti indirizzi altrove, facendo anche dell’ottima propaganda a favore del ‘rivale’, che ciascuno sia arci-fiero di appartenere ad una identità nazionale, fatta di valori e credenze che vanno al di là del confine dei singoli stati e della composizione multietnica della popolazione. Insomma, esattamente il contrario di ciò che accade qui da noi, partendo dal contesto nazionale per finire alle piccole realtà locali! Indubbiamente, ritengo che le diversità vadano preservate e positivamente esaltate, in quanto esse rappresentano il retaggio di culture millenarie. Tuttavia, non vanno esasperate al semplice scopo di creare fratture che non portano a nulla di costruttivo, se non ad un crescente isolamento, ad un crescente pregiudizio, ad una crescente diffidenza. Noto con dispiacere atteggiamenti di avversione e di rivalità anche nel mio piccolo, nella vita di tutti i giorni. La gente, anziché collaborare reciprocamente, spesso preferisce parlare male del vicino, screditarlo, pensando, in questo modo, di accrescere il proprio prestigio! Costoro non hanno chiara una verità indiscutibile: il benessere personale dipende anche da quello collettivo, e, allo stesso modo, il discredito e l’invidia sono come un boomerang che prima o poi si ritorce contro.
E adesso, nuova puntata rivoluzionaria!
Dopo la sosta a Sedona, Arizona, io e Alessandro riprendemmo il viaggio di nozze che, ormai, con nostro grande rammarico, volgeva al termine! Ovviamente non poteva mancare la tappa obbligata al Gran Canyon, l’immensa gola scavata dal fiume Colorado, che non perdemmo occasione di sorvolare in elicottero! Anche quella fu un’esperienza memorabile, soprattutto per il mio stomaco… Prima di raggiungere la California, decidemmo di sostare a Las Vegas, Nevada, spinti, più che altro, dalla curiosità di vedere con i nostri occhi i casinò più famosi del mondo. La cosa che maggiormente ci stupì fu constatare la capacità degli Americani di aver creato una metropoli nel cuore del deserto. E, come se non bastasse, dovunque volgessimo lo sguardo, vi era grande utilizzo di acqua, destinata soprattutto a decorare fontane, laghi artificiali e mirabolanti giochi acquatici di cui era praticamente dotato ciascun casinò. Tuttavia, soprattutto, per il visitatore proveniente dal Vecchio Continente, era immediata la percezione di trovarsi in una città in autentico stile kitsch, dove tutto è strabiliante, ma, allo stesso tempo, a tratti, eccessivamente artefatto.
Per non parlare dell’elettricità allo stato puro che era quasi possibile annusare nell’aria, generata dalla tensione delle migliaia di giocatori d’azzardo che, sistematicamente, affollavano le notti di Las Vegas. Viceversa, al mattino la città, priva dello sfavillio delle sue luci e della frenesia dei suoi scommettitori, appariva come un parco giochi in disuso, in cui i turisti si aggiravano senza meta e i giocatori fremevano nell’attesa di nuove puntate. La luce del giorno faceva venire a galla anche ciò che il belletto notturno riusciva a far passare inosservato: nelle strade secondarie, a ridosso dei lussuosi casinò, non era raro avvistare edifici fatiscenti, intorno ai quali si aggiravano poveracci al limite della sopravvivenza. Sembravano fantasmi diurni, rigettati persino dalle tenebre della notte, aventi come unici compagni nel loro avanzare stanco e trascinato cumuli di cartacce che improvvise folate di vento caldo e secco si divertivano a schiaffeggiare e a rimescolare.
La vista di questo scenario mi inondò di un profondo senso di mestizia ma soprattutto di turbamento: avevo la sensazione di stare sulla cima di un vulcano in procinto di esplodere dalle sue viscere il magma di disperazione, di accanimento, di dissolutezza e di perversa euforia di cui quella terra era intrisa.
Lasciare Las Vegas alla volta di San Francisco fu per noi una liberazione. Fu come sbarazzarsi di un fardello troppo opprimente e mortificante per spiriti puri e liberi come i nostri!
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