martedì 22 febbraio 2011

Mi butto nella mischia...

A lavà 'a capa 'o ciuccio se perde acqua e sapone
(A lavare la testa all'asino si perde acqua e sapone)

Come al solito, il napoletano è sorprendente nella sua immediatezza e nella sua efficacia: immaginate un asino (in napoletano si traduce ciuccio, termine la cui incisività e carica raffigurativa non può non saltare all’occhio!), recalcitrante e cocciuto, che si impunta a voler fare di testa sua, sordo a qualsiasi comando, perseverante nella sua beata rozzezza… ebbene, perdereste mai il vostro tempo a lavargli la testa, nell’illusione che esso assurga ad un cavallo? La risposta è scontata, e allora chiedetevi perché spesso ci ostiniamo ad impiegare male le nostre energie e il nostro tempo, cercando di migliorare persone che non hanno alcuna volontà di crescere o di allargare le proprie vedute! E’ assolutamente inutile vestire i panni delle crocerossine o dei buoni samaritani quando ciò non ci viene chiesto: rischieremmo solo di raccogliere rifiuti e delusioni e, in ogni caso, il risultato finale non cambierebbe.
La propensione al cambiamento, al rinnovamento non può essere in alcun modo inculcata, soprattutto se si va a calpestare un terreno arido su cui mai nessun seme attecchirà. L’energia in tal senso deve prendere vita dentro di noi: basta anche una sola scintilla, che può essere, poi, proficuamente alimentata con l’aiuto esterno. Tuttavia, se questi presupposti non si creano, è inutile, anzi dannoso, perseverare.
Ma, a questo punto, carissimi lettori, è giunto il momento di ritornare a ciò che tutti attendete con curiosità e trepidazione, ossia le novelle della ormai bancaria per caso…
L’approdo all’agenzia n. 6 costituì un vero e proprio trauma, abituata com’ero ai ritmi lenti e naturali della vita vacanziera senese. La massiccia e costante affluenza di clientela, dall’istante in cui lo sportello apriva al pubblico fino al momento in cui esso chiudeva, mi fece capire fin da subito che quella non sarebbe stata propriamente una passeggiata per Via Caracciolo (per i non napoletani, trattasi del meraviglioso lungomare di Napoli, da cui è possibile rimirare l’omonimo golfo in tutta la sua bellezza)! Più che nella filiale di una banca, mi sembrava di essere stata catapultata in un bazaar arabo, in cui la gente si accalcava, chiacchierava, talvolta litigava coloritamente, scherzava, si annoiava, ma ogni giorno, immancabilmente, fedelmente era sempre là…
Non vi sarà difficile immaginare che, in simili circostanze, dovetti imparare il più velocemente possibile l’arte della sopravvivenza. Nei primi due mesi, bruciai quattro chili e potevo almeno vantarmi di frequentare l’unica palestra della città in cui il praticante viene pagato piuttosto che sborsare mensilmente la quota dell’abbonamento.
Le casse erano quattro, ma normalmente ne venivano aperte solo tre, in quanto l’agenzia era sottodimensionata e mancava, per l’appunto, di un operatore di sportello. Le mie colleghe erano due ragazze toscane: una era taciturna a tal punto che ricordo vagamente il timbro della sua voce, e, comunque, anche quando parlava, lo faceva così sommessamente che, per captare il suo verbo, occorreva a dir poco il cornetto acustico del mio bisnonno! L’altra, invece, era molto sveglia e dotata di una parlantina che compensava la pochezza di parole della sua compagna di banco.
All’inizio annaspavo in quel mare di operazioni e transazioni ancora sconosciute: la mia agitazione, se rappresentata in un grafico, avrebbe avuto esclusivamente un trend in ascesa, con una pendenza che sarebbe stata proibitiva anche per l’Uomo Ragno! A ciò si aggiungeva la freddezza delle mie colleghe di sportello, che non sempre erano inclini ad aiutarmi laddove mi arenavo, vuoi anche per la pressione esercitata dalla clientela in perenne attesa. Fortunatamente, il sostegno mi veniva proprio da chi era l’ultimo dei sospettabili, ovvero il cliente che, dopo aver atteso pazientemente il suo turno, generalmente non si mostrava infastidito dalla mia imperizia, ma, anzi, mi incoraggiava e rassicurava. “Signorì, avimmo aspettato tanto, mo’ nu minuto ‘e cchiù, nu minuto ‘e meno…” (traduco: “Signorina, abbiamo aspettato tanto, per cui un minuto in più, uno in meno…”) era quello che solitamente sentivo dirmi al di là del vetro blindato.
Eppure, non immaginavo che, quando avrei dovuto dirle addio, anche la 6 mi sarebbe mancata!

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